20 grammi

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20 grammi di roba, quasi tutti di marijuana, più un pizzico di cocaina e due pasticche di Rivotril, un farmaco che serve per curare l’epilessia: questo fu trovato nelle tasche di Stefano Cucchi la sera del 15 ottobre 2009. Le pillole di Rivotril le usava abitualmente dietro prescrizione medica, ma le forze dell’ordine parlarono di pasticche di ecstasy. Non sappiamo quale fosse la verità, ma non è importante, non mettiamo in dubbio la parola degli agenti e facciamo conto che le pillole fossero di ecstasy. Stefano fu fermato in ogni caso per un reato non grave: detenzione di stupefacenti per uso personale. Quella notte il ragazzo tornò a casa scortato da due carabinieri in divisa e due in borghese che perquisirono la sua stanza senza trovare nulla. Se lo portarono in caserma non prima di aver rassicurato i genitori allarmati : il reato non era grave, l’indomani ci sarebbe stato un processo per direttissima, niente di cui preoccuparsi.

La mattina dopo, al processo, Stefano ci arrivò con la faccia tumefatta e segni molto evidenti di percosse intorno agli occhi, sulle sopracciglia. Aveva anche problemi alla schiena e difficoltà a camminare. Dopo che ebbe dichiarato la sua colpevolezza il giudice lo rinviò a giudizio. Cucchi fu portato in carcere, dove sarebbe rimasto fino al 13 novembre successivo, giorno dell’udienza, se non fosse morto di lì a sei giorni. Dal carcere fu portato in ospedale per una visita e delle radiografie, perché il ragazzo lamentava forti dolori. Gli riscontrarono la frattura di due vertebre, la L3 e quella coccigea.

Il giorno dopo Stefano venne ricoverato al Sandro Pertini, nel settore penitenziario. I familiari vennero informati alle 21 di quel sabato. Durante tutti i giorni successivi, tra mille ostacoli, divieti, richieste di permessi e preghiere di poter vedere Stefano o di poter parlare coi medici, i genitori di Stefano non riuscirono ad ottenere né di incontrare il figlio né i medici, fatta eccezione per un brevissimo colloquio con una sovrintendente del reparto che disse ai Cucchi “vostro figlio è tranquillo”. Lo hanno rivisto da morto, ridotto in condizioni pietose e molto più magro di quanto già non fosse prima.

Questo il riassunto, ma la versione dettagliatissima dei sei giorni d’inferno vissuti dai Cucchi e da Stefano si può leggere qui. Quello che conta oggi è la sentenza. Cinque medici condannati a due anni per omicidio colposo, un falso ideologico, gli agenti assolti, ma tutte le pene agli imputati sono state sospese, ai medici tocca risarcire i genitori, la sorella Ilaria e figli di quest’ultima. La sentenza è stata accolta dalle proteste degli astanti, e a parte alcune eccezioni, anche nel milieu della politica ci sono state dichiarazioni di sconcerto e di perplessità per la conclusione di una vicenda drammatica che rievoca (e non è un caso unico) abusi degni delle dittature più feroci.

Dov’è lo scandalo maggiore in questa sentenza? L’aver considerato questa morte un caso di malasanità, non altro. Niente percosse, nessun eccesso, e neanche, da parte del personale medico, l’abbandono di un incapace. Dodici imputati, nessuno di loro ha aperto bocca sulle condizioni in cui versava Stefano quando entrò in ospedale per la visita. Chi lo aveva ridotto così? La cosa importante per quei dodici era di trovare la maniera per coprirsi l’un l’altro, di darsi una mano.  Magari il ragazzo s’era buttato per le scale, oppure – come dichiarato dagli avvocati difensori – era stato arrestato già così malconcio, e i genitori quindi sarebbero stati ciechi a non rendersene conto la sera di quel giovedì 15 ottobre, l’ultima volta che videro il figlio, o peggio mentirono, dichiararono il falso.

Tutto questo non ci rassicura per niente. Dobbiamo temere per noi stessi. Dar sempre ragione a chi fa schioccare le fruste, sostenere la verità che contraddice i diritti dei cittadini non va bene per una democrazia: questa sentenza è il frutto di un’illusione, di una sinistra messinscena che solo l’ostinazione disperata di Ilaria e dei signori Cucchi potrà contrastare.

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