Don Quijote , un’intervista

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Don Quijote, un’intervista

Don Quijote, un’intervista a Erri De Luca che ho trascritto fedelmente perché riascoltandola a distanza di dieci anni mi è sembrata ancora più attuale di quanto non fosse in quel momento. Ciò avviene quando si ha l’opportunità di interrogare individui profondamente immersi nella realtà che li circonda eppure distanti quel tanto che basta per decifrarla, per anticiparla, per spiegarcela.

Avevo ricevuto il suo numero di telefono da “I Quindici”, dei quali facevo parte come lettrice volontaria di inediti e per i quali avevo intenzione di registrare qualche intervista che sarebbe stata trasmessa sul circuito web in “Radio Inciquid”. De Luca si rese subito disponibile e mi disse che sarebbe arrivato a Napoli entro tre settimane.  Lo incontrai nella libreria La Feltrinelli di Napoli in primavera. Avevamo un appuntamento lì dove lui era invitato per la presentazione del suo ultimo libro, che era “Solo andata”.

Mentre aspettavo l’ansia cresceva: avevo sempre avuto di lui una percezione erronea,  credevo fosse un uomo severo e molto introverso. E poi non ero una giornalista, non avevo fiducia nelle mie capacità di intervistatrice. Entrò precisamente all’ora stabilita, tutto vestito di bianco, con le mani nelle tasche dei pantaloni. Alto, magro, sulla sua faccia spiccavano i piccoli, acutissimi occhi azzurri. Sembrava un principe nordeuropeo, oppure un asceta. Gli andai incontro e mi presentai. Mi informò che stava arrivando direttamente dalla stazione e notai che non portava con sé borse o valigie. Glielo dissi, e lui sorridendo mi rispose che aveva con sé le chiavi di casa, e quelle erano il suo bagaglio. Ci appartammo in una saletta ai piani inferiori, dove la registrazione non sarebbe stata disturbata da voci e rumori di fondo e cominciai la mia intervista a un grande scrittore. Come tutti coloro che sono veramente grandi, mi accorsi attraverso le risposte che mi dava di quanto fosse modesto, di quanto vasta fosse la distanza dal “mercato”. Erri De Luca è molto vicino agli uomini, lontanissimo da ogni mondanità.

L’INTERVISTA

Vorrei sapere quanto può averti influenzato nella vita quotidiana lo studio della letteratura profetica, dei testi sacri che ami molto.

Sono un lettore assiduo di quelle storie, lo faccio da molti anni. Ho studiato la lingua di quella rivelazione iniziale, la lingua con cui si è piantato il monoteismo nel mondo, l’ebraico antico, e così frequento quelle storie tutte le mattine.Mi serve per i miei risvegli, ho salvato così tutti i risvegli della mia vita negli anni operai perché il lavoro si mangiava tutto il mio tempo e io riuscivo a piazzare una ora tutta mia all’inizio del giorno, prima di uscire.E così quei risvegli con l’ebraico antico mi hanno permesso di essere contento tutte le mattine della mia vita operaia.

Tu ami anche il Don Chisciotte, lo definisci un invincibile, e ritieni che non è invincibile colui che vince tutte le battaglie ma colui che sa cadere, sa rialzarsi e ricominciare la lotta. Che cosa c’è in te di questo personaggio così generoso e visionario?

No, in me niente, in me niente. Chisciotte è la perfezione assoluta, è la figura più eroica di tutta la storia della letteratura, è uno che viene continuamente sconfitto e che continuamente si rialza. Non solo non teme alcun tipo di pericolo perché si trova sempre in inferiorità numerica contro nemici soverchianti, ma non teme nemmeno il ridicolo, e questa è una specialità supplementare di coraggio che non ha nessun altro termine di paragone,  nessun’altra figura della letteratura è stata tanto eroica nei confronti del pericolo e del ridicolo. Credo che un po’, nel cinema, gli si avvicini Buster Keaton. Io non gli assomiglio per niente. Durante la lettura del Chisciotte colui con cui mi sono identificato più spesso è il cavallo. Il cavallo perché molte cariche alle quali sono stato spinto non erano una mia iniziativa ma provenivano da una forza maggiore che spronava me e la mia generazione verso o contro nemici più grandi di noi. Dunque si, sono stato un lettore appassionato di Chisciotte ma senza poter ereditare da quell’eroe nemmeno un calzino.

(Recentemente De Luca è stato vicino al popolo NO TAV, è stato vicino ai campani della Terra dei fuochi.)

Sei nato a Napoli, che è una città di mare,  ma ami molto la montagna. So che da poco sei tornato da un ennesimo viaggio in montagna. Che cosa rappresenta per te la montagna?

Mah, intanto la montagna è, meccanicamente, il fatto che dai le spalle al mondo. Ti avvii da quelle parti e scalando, scalando dai le spalle a tutto e sei faccia alla parete. Questo è: potersi staccare dal proprio suolo, dall’ambiente e dal mondo intorno. Poi è anche la possibilità di guardare un posto del mondo in cui noi non siamo presenti, un posto in cui manca la specie umana, e quindi è anche un modo per guardare la terra così com’era prima di noi e come sarà anche dopo di noi. E’ una gita in un deserto magnifico, una gita con un’andata ed un ritorno, e l’importante è il ritorno.

Non si viaggia senza poter ritornare.

Eh, dalla montagna è bene sapere che si è ritornati.

Nietzche tanto tempo fa domandava: “C’è ancora un caos dentro di voi? C’è ancora una stella cadente?” Secondo te, al punto in cui siamo, in questa società così razionale e concreta quanto si è ridotto lo spazio per l’immaginazione, quello spazio da cui possono nascere pensieri nuovi, originali?

Non si è ridotto affatto perché questa è una società per niente razionale. A me sembra una società completamente irrazionale, una società che crede di potersi arricchire e di poter essere abbondante e facoltosa eleggendo a capo del governo il cittadino più ricco. Una società che si comporta così è completamente irrazionale, fantasiosa insomma, che ha dei fantasmi e che questi fantasmi perseguita e persegue. Il fantasma della ricchezza è un fantasma che costa caro a coloro che lo inseguono, trafelando dietro traguardi. E poi i risultati sono molto scarsi. Dunque è una società irrazionale, questa. Si tratta di una irrazionalità a bassa temperatura, moscia, che genera una vaga insensibilità nei confronti di tutto. Per il resto il margine per la fantasia, per la musica, per la voglia di teatro o di viaggio o di racconto c’è tutto. Quello che manca a noi tutti è un po’ di compassione.

( In quel periodo Silvio Berlusconi era all’apice del suo successo politico, gli italiani lo adoravano. De Luca dichiarava che il fantasma della ricchezza costa caro e che dà scarsi risultati in un momento in cui all’orizzonte non si era addensata neanche una sola nuvola di quella che in seguito sarebbe diventata la tempesta perfetta in cui oggi annaspiamo.) 

 

Conoscendoti per aver letto i tuoi libri credo di aver capito che non ami la parola “utopìa”. Se ho ragione, perché?

Ma perché mi piacciono i posti, mi pace la geografia, mi piacciono i posti che ci sono e non quelli che non ci sono. L’utopìa è sempre un altro luogo, è stabilire regole di un altro luogo che non c’è. I grandi utopisti erano anche dei grandi rompiscatole: per esempio Platone nella sua “Repubblica” ideale, che è uno dei testi cardine dell’utopìa, voleva mandare al governo i filosofi e voleva espellere dalla città i poeti. Le utopie hanno sempre questo bisogno, di stabilire delle tirannie a scopo infelicità.

Ti sembra un po’ azzardata, l’utopia…

No, è impossibile, e poi è meglio restare con i piedi nei posti dove siamo, insomma, e non cercare altre terre, altri posti, o inventarci altre repubbliche. Abbiamo questa e ci dobbiamo fare i conti. Abbiamo questa repubblica e questa vita e dobbiamo farci i conti qui.

Ritieni che per ragioni di mercato gli scrittori siano costretti dalla grande editoria a rispettare regole, limiti? Lo chiedo in generale, non per quanto riguarda il tuo caso specifico.

No, a me non è mai capitato, neanche quando ho esordito con il primo libro. Dopo aver eserdito col primo libro ho continuato a fare il mestiere di operaio, non mi attaccai al tram che mi aveva tirato su a quella fermata. Non ho mai avuto bisogno di sottoscrivere contratti capestro con editori. Ho avuto fortuna, mi è andata bene.

Ho una passione per il libro usato; l’onore del libro sta nell’essere letto – la singola copia – da molte persone. Non mi piace sapere quante copie vende un libro ma quante persone leggono una copia dello stesso libro. Per questo è bene che ci siano, e che aumentino, le biblioteche pubbliche, le biblioteche comunali. Sono questi i posti dove i libri costano zero ed una singola copia fa un bel viaggio attraverso molte mani.

Hai mai sentito parlare di copyleft?  e cosa pensi di tutto quel movimento internazionale che si occupa di contrastare il diritto d’autore sulle opere immateriali come la musica, la poesia, la saggistica, la letteratura e via dicendo?

Mah, non lo so. La musica l’ ascolto poco, però ecco, se quelli che ascoltano hanno la possibilità di trovarla a buon mercato o gratis ritengo si tratti di una possibilità che va conservata, nel mondo. I libri: i libri stanno gratis nelle biblioteche, come dicevo prima. Il diritto d’autore è un po’ triste, è una pretesa un po’ triste anche perché nessuno di noi è veramente autore delle proprie storie, un po’ perché ce le passa la vita; le storie che noi raccontiamo le rieditiamo, siamo come dei redattori;  tutte le storie sono già state raccontate, noi scriviamo delle varianti di cose che sono state già raccontate. Dunque il diritto d’autore è un po’ presuntuoso, andrebbe ridotto di rango oltre che come fonte di guadagno. Siamo dei redattori, quali autori?

Sei tra coloro che hanno aderito, come Wu Ming, alla campagna promossa da Green Peace per l’uso di carta ecologica. Pensi che sia possibile in Italia una conversione in questo senso a breve?

No, no. E’ solamente una petizione di principio, come risparmiare acqua. E’ un atteggiamento di igiene nei confronti del mondo; la carta che viene sprecata nell’editoria è un centesimo della carta che viene sprecata nel mondo, molto di più attraverso carta igienica e carta di giornali, insomma, che è l’uso massiccio, quotidiano. Noi che abbiamo una possibilità di affacciata, una linea e la possibilità di affacciare le nostre linee di pensiero su dei giornali, diciamo che bisogna giocare pulito col mondo. La nostra è una posizione di minoranza e anche un po’ di élite.

(Con il trascorrere degli anni, la dimostrazione di quanto fossero giuste le sue considerazioni  è palese: di carta ecologica nel campo editoriale si parla pochissimo)

Perché  quando si va in piazza – raramente dovremmo dire –  ci sono molti più quarantenni  e cinquantenni che diciottenni?

Non lo so, non lo faccio bene questo calcolo, però mi sembra che la gioventù si stia muovendo meno. D’altra parte quella grande ondata di mobilitazione e di insubordinazione che ci fu nei confronti della partecipazione dell’Italia alla guerra è stata mortificata e umiliata dallo sviluppo della storia seguente. Resta però un sentimento di insofferenza e una sensazione di tradimento da parte di quei governi che usano la guerra come dichiarazione di bilancio e la iscrivono nella finanziaria dell’anno. Quello che mi stupisce di più dei cortei di adesso non è tanto la partecipazione per età ma il silenzio. Strillano poco questi cortei di adesso, cantano poco oppure quando cantano è perché hanno attaccato uno di quei super bass sopra un camion e fanno un gran casino e ballano nei centimetri quadrati intorno; quello non è “voce”, è tenersi compagnia mentre si sta facendo una passeggiata.

Per finire vorrei chiederti come è nato “Solo andata” .

“Solo andata” è il viaggio dei migratori verso di noi, non solamente il viaggio delle barchette che si infilano nel vicolo cieco del Mediterraneo, ma è il viaggio a piedi attraverso continenti, attraverso l’Africa, l’Asia per arrivare a questo bacino, a questo stagno che è il Mediterraneo. Il libro racconta il viaggio compiuto da ondate migratorie che non possono essere fermate dai naufragi, dalle espulsioni o dai centri di detenzione abusivi e illegali di migratori. Quei centri li abbiamo dappertutto, la finanziaria li sta moltiplicando. Questa epopea che si sta svolgendo mentre noi siamo qui, questa epopea grandiosa, nostra contemporanea, mi ha fatto venir voglia di raccontare da dentro una di queste storie, una delle tante che si svolgono per mare e per terra sperando di fare il pesce pilota di un poeta vero, di un Omero che si prenda il carico di raccontare una Iliade di viaggio come quello compiuto dai migratori.

Un  Omero contemporaneo  invece noi già lo abbiamo.  

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