Andrea Morrone sull’astensionismo

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Andrea Morrone sull’astensionismo nel 2005 scriveva un articolo attualissimo e ripercorreva la storia repubblicana dal 1972. Partendo dalla domanda se sia legittimo o meno astenersi e invitare i cittadini a non andare alle urne Morrone ci regala un’analisi approfondita sul tema. Riporto qui per intero l’articolo. Vale davvero la pena leggerlo.

Articolo pubblicato su il Riformista lunedì 23 maggio 2005 – Andrea Morrone è Professore straordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.

E’ legittimo astenersi e invitare a disertare le urne? Perché è importante discutere ancora di astensione? Perché l’appello all’astensione dal voto rappresenta la scorciatoia per affossare una richiesta di referendum popolare. Utilizzando l’astensionismo fisiologico (non vota normalmente il 25- 30%), è oggi sufficiente convincere a non votare una minoranza di cittadini (pari al 20-25% circa dell’elettorato) per boicottare qualsiasi referendum. Di fronte all’astensione, in altri termini, qualsiasi richiesta di referendum abrogativo nasce morta. Basta guardare alla storia repubblicana. Un po’ di storia. Nonostante le polemiche dell’ultima ora, la propaganda a favore della diserzione dalle urne e l’assenteismo dal voto hanno affiancato la storia dei referendum abrogativi fin dalle origini. La prima volta risale al 1972, quando Pietro Scoppola e altri intellettuali cattolici proposero agli elettori di ricorrere all’astensione come alternativa democratica per respingere il referendum sul divorzio, ritenuto un’iniziativa “inequivocabilmente confessionale”. Questa via d’uscita venne poi suggerita da Marco Pannella, il leader referendario per eccellenza, a Bettino Craxi il 9 aprile 1985 per scongiurare il referendum comunista sulla scala mobile: l’invito a disertare le urne, accolto inizialmente da Pierre Carniti e dallo stesso Craxi, fu poi abbandonato da quest’ultimo (lo convinsero De Mita, Spadolini, Zanone e Longo), dato che il Presidente del consiglio decise di trasformare il referendum in un voto di fiducia sulla politica del governo (poco prima del voto, non tutti lo ricordano, anche Pannella e i radicali decisero di recarsi alle urne per votare NO). E’, però, con i referendum su caccia e pesticidi del 1990 che l’invito a disertare le urne (in taluni seggi trasformato in vere e proprie pressioni fisiche) raggiunse per la prima volta il segno. A invalidare la consultazione popolare si ritrovano insolitamente uniti agricoltori, cacciatori, produttori di pesticidi, fabbricanti di doppiette. Una sola volta l’appello all’astensione è stato sconfitto. Chi non ricorda l’invito ad andare al mare fatto da Craxi e più apertamente da Bossi in occasione del quesito sulla preferenza unica del 1991. Il 9 giugno 1991 gli italiani andarono a votare, nonostante il fuoco incrociato contro il referendum elettorale (“incostituzionale” lo definì Giuliano Amato, inutilmente “costoso” lo ritenne il Presidente del consiglio Andreotti, mentre il Presidente della Repubblica Cossiga, per sostenerne la legittimità, attribuì all’astensione il valore di un “NO rafforzato”, anche se poi si recò a votare, ma solo all’ultimo momento): 29 milioni furono i votanti, e 27 milioni i voti favorevoli alla preferenza unica. Quella importante vittoria democratica spianò così la strada ai referendum elettorali del 1993 e, dopo il varo delle nuove leggi elettorali maggioritarie, ai primi governi dell’alternanza. Dopo quell’unico precedente sotto la spada di Damocle dell’astensione caddero, senza soluzione di continuità, tutti i referendum successivi: i sette quesiti del 1997 su golden share, obiezione di coscienza, caccia, carriera dei magistrati, incarichi extragiudiziari, ordine dei giornalisti, ministero per le politiche agricole (votò il 30.2%), il referendum per il maggioritario del 1999 (49,6%), i sette referendum del 2000 su sistema elettorale maggioritario, finanziamento pubblico della politica, elezione del CSM, separazione delle carriere dei magistrati, incarichi extragiudiziari, trattenute sindacali, liberalizzazione dei licenziamenti (32,2%), i tre quesiti del 2003, due sull’art. 18 dello statuto dei lavoratori e uno sulla servitù di elettrodotto (25,7%). In tutti i casi l’invito a disertare le urne è stato sostenuto, sia pure in maniera differenziata nelle varie circostanze, praticamente da quasi tutti i principali protagonisti della politica italiana (tra cui alcuni di coloro che adesso sostengono di voler votare…).

Anche oggi, del resto, la propaganda astensionistica minaccia la validità dei quattro quesiti sulla procreazione medicalmente assistita. La domanda è sempre la stessa però: è legittimo invitare a disertare le urne? E’ legittimo astenersi dal voto? Sulla questione sono intervenuti, come sempre, voci diverse: politici, sacerdoti, cittadini comuni, giuristi. Un vivace dibattito è in corso tra i costituzionalisti. Michele Ainis ha ritenuto l’astensione “una frode della Costituzione” (La stampa 12/5/05); Antonio Baldassarre ha invitato a leggere la Costituzione quando parla di libertà di espressione e di libertà di voto per ritenere pienamente legittima sia la propaganda per la diserzione delle urne sia l’assenteismo elettorale (La stampa 14/5/05); Gaetano Silvestri, pur ritenendo lecito astenersi, ha posto l’attenzione sulla correttezza democratica di un simile comportamento (il manifesto 15/5/05); Paolo Armaroli ha parlato dell’astensione come di un espediente lecito utilizzabile in chiave ostruzionistica (il Giornale 18/5/05); Stefano Ceccanti ha ritenuto una indebita intrusione nelle questioni temporali l’appello a non votare fatto dal cardinale Ruini (il Riformista 5/4/05). E’ importante che su questo tema intervengano anche i giuristi. Ma a patto di non ridurre una questione così complessa a facili semplificazioni. Da un punto di vista costituzionale la legittimità dell’invito a astenersi e dell’astensione deve essere valutata alla stregua di tre profili: con il diritto di voto (art. 48 Cost.), con la disciplina del referendum abrogativo (art. 75 e legge n. 352 del 1970), con la libertà di opinione e la disciplina della propaganda elettorale (art. 21 Cost.). Astensione e diritto-dovere di votare. L’art. 48 della Costituzione stabilisce che il voto è libero e che il suo esercizio è un “dovere civico”. Secondo alcuni questa norma vale solo per le elezioni e non per i referendum, in ragione di una pretesa superiorità della democrazia rappresentativa sulla democrazia diretta, sicché sarebbe legittimo “non votare”, anzi l’astensione equivarrebbe a un NO detto due volte. Questo argomento tuttavia prova troppo: per la Costituzione, come detto, il voto (qualsiasi voto) è personale, libero e segreto e il suo esercizio costituisce un “dovere civico”. Senza ulteriori precisazioni non sembra difficile ammettere, come fa del resto la Corte costituzionale (sent. n. 96/68), che questi principi valgano per tutte le consultazioni, politiche e referendarie. In teoria generale, anzi, le votazioni elettorali e quelle referendarie costituiscono specie del genere delle deliberazioni collettive. Vale la pena di ricordare che fin dalla Costituente si chiarì che non vi era contraddizione tra libertà e doverosità nell’esercizio del diritto di voto. Voto libero è quello che si svolge in assenza di coazione, come “libertà oggettiva dell’esercizio del diritto di voto a vantaggio dell’elettore, per modo che gli organi dello Stato siano impegnati ad assicurare questa libertà”. Più difficile fu la discussione intorno alla formula del “dovere civico”, che alla fine rappresentò una soluzione di compromesso, tra i fautori e gli avversari dell’obbligatorietà del voto e della sua sanzionabilità. Mentre i partiti moderati, tra cui soprattutto la Democrazia cristiana, erano favorevoli all’introduzione del voto obbligatorio per spingere a votare i ceti medi e conservatori, le forze politiche di sinistra sostenevano la libertà del voto per ragioni esattamente opposte e, quindi, per avvantaggiarsi del consenso delle masse operaie. Il compromesso costituzionale intorno alla formula “dovere civico” venne chiarita da Meuccio Ruini quando, in sede di votazione, riconobbe che la formula prescelta rappresentava “un primo passo”, che rinviava in futuro la scelta definitiva se introdurre anche l’obbligatorietà del voto. Il dovere giuridico di votare veniva così sanzionato nell’art. 115 del testo unico delle leggi per l’elezione della Camera: per chi si asteneva era prevista la menzione “non ha votato” nel certificato di buona condotta. La norma è stata abrogata nel 1993. Secondo alcuni così il voto da dovere sarebbe diventato una piena libertà. Si tratta però di una semplificazione.

Non solo è vero che senza una formale modifica dell’art. 48 Cost. niente autorizza a ritenere abolita, insieme alla sanzione, pure la doverosità del diritto di voto. Piuttosto, con quella modifica si è superato un equivoco ricorrente: ritenere doveroso perché sanzionato solo il voto nelle elezioni e non nei referendum. Votare nelle elezioni e nei referendum, invece, era e resta un dovere costituzionale (Giorgio Lombardi). Solo che si tratta di un dovere privo di qualsiasi sanzione (come una lex minus quam perfecta). Astenersi dal voto è quindi un comportamento lecito. Ma non per questo costituisce esercizio di un diritto costituzionale (come hanno ritenuto alcuni, tra cui Barile-Cheli-Grassi nel manuale di Diritto pubblico). Si tratta di un fatto pienamente lecito certo, ma giuridicamente irrilevante ai fini dell’esercizio del diritto di voto. Concettualmente, infatti, nell’atto del votare non rientra affatto il comportamento di chi si astiene dal voto. Vota infatti solo chi si reca alle urne, e qui le possibilità sono solo tre: votare SI, votare NO, astenersi nel voto (consegnando scheda bianca). Chi non si reca alle urne non vota, né tantomeno vuole esprimere una volontà contraria (o addirittura un “NO rafforzato): il non voto è solo un voto inesistente. Così si svolgono le votazioni in Parlamento, e il diritto parlamentare non prevede affatto l’uscita dall’aula (l’astensione dal voto) come una forma di decisione. L’assenteismo parlamentare, come quello elettorale, rappresentano semmai forme di ostruzionismo. Si tratta certamente di un comportamenti leciti, ma con ciò non si può dire che chi sia assente sta esercitando una libertà implicita nel diritto di voto. Scambiare queste due situazioni contraddice il principio che assiste le deliberazioni elettorali, secondo il quale la volontà della maggioranza deve formarsi nel collegio, ossia nel procedimento deliberativo e non al di fuori di esso. Assente è colui che ha deciso di non partecipare al processo decisionale. Cosa diversa, ma non per questo meno rilevante, è valutare quando l’astensionismo (anche in funzione ostruzionistica) diventa una pratica aliena, se non addirittura contraria, alla dialettica parlamentare, come nel caso di una minoranza organizzata che con la propria reiterata assenza impedisce alla maggioranza di assumere qualsiasi decisione e al Parlamento di svolgere la sua funzione politica (Manzella). Contro lo scambio tra astensione dal voto e diritto di voto nella triplice accezione vista è pure la giurisprudenza: ciò si desume chiaramente in alcune recentissime decisioni della Corte costituzionale, sia quando afferma che “in presenza della prescrizione dello stesso art. 48, secondo cui l’esercizio del diritto di voto “è dovere civico”, il non partecipare alla votazione costituisce una forma di esercizio del diritto di voto significante solo sul piano socio-politico” (sent. n. 173 del 2005), sia quando ritiene legittime norme dirette a incentivare la partecipazione elettorale nei referendum come antidoto al dilagare dell’astensionismo elettorale (sent. n. 372 del 2004, sullo statuto della regione Toscana che commisura il quorum non sugli iscritti nelle liste elettorali ma sulla percentuale dei votanti alle ultime elezioni). Astensione tra quorum e legislazione. Si argomenta, però, che l’astensione sarebbe un diritto perché legittimamente ammessa dalla norma (art. 75 Cost.) sul quorum strutturale nel referendum abrogativo (Bettinelli, Iacometti, Lanchester e altri): la soglia del 50% più uno degli aventi diritto al voto come presupposto della validità del voto referendario si giustificherebbe proprio perché si vuole così ammettere la libertà di non votare. Per smontare questo ragionamento sarebbe sufficiente notare che ove il quorum non ci fosse, come nel caso del referendum costituzionale o di referendum consultivi che non prevedono quorum strutturale (basti pensare al referendum siciliano appena votato sulla soglia di sbarramento del 5%, come ricorda Silvestri su il manifesto) sarebbe per ciò solo illegittima qualsiasi astensione dal voto e, quindi, necessariamente obbligatorio recarsi alle urne. L’assurdità di una simile conclusione dimostra facilmente la debolezza della premessa. Anche in questo caso è utile ritornare al dibattito della Costituente. Nella Costituzione repubblicana il quorum per i soli referendum abrogativi venne stabilito per una ragione diversa e specifica (collegata alla scelta di ammettere il referendum solo a certe condizioni e solo sotto determinate condizioni). Si voleva evitare che una piccola minoranza potesse abrogare una legge votata dalla maggioranza dei cittadini rappresentati in Parlamento. Di fronte a una legge, approvata dalla maggioranza politica, l’abrogazione popolare poteva essere consentita solo se a votare fosse andata una maggioranza uguale e contraria. Il quorum, dunque, non per legittimare l’astensione ma deliberatamente per contrastarla. Le motivazioni dei Padri costituenti sono state sostanzialmente recepite in sede di discussione e approvazione della legge sui referendum (legge n. 352 del 1970, cfr. l’intervento del Ministro Gava in sede di discussione del progetto). La disciplina legislativa, infatti, non contempla l’astensione, neppure come variante nel voto referendario. Gli artt. 37 e 38 stabiliscono solo gli effetti conseguenti alla vittoria dei SI (l’abrogazione della legge) o dei NO (il divieto di reiterazione dei referendum nei cinque anni successivi). Una conferma è nel fatto che fu respinto un emendamento volto a equiparare il “non voto” al “voto contrario” all’abrogazione. In questo senso del resto è anche il diritto vivente. In occasione della reiterazione nel 2000 del referendum contro la quota proporzionale della legge elettorale della Camera che l’anno precedente non aveva raggiunto il quorum, la dottrina prevalente (vedi i pareri pro veritate di Barbera, Caianiello, Corasaniti e dello stesso Baldassarre) e, quel che più conta, l’Ufficio centrale per il referendum e la Corte costituzionale hanno ritenuto legittima la riproposizione del quesito, smentendo apertamente l’equiparazione tra “astensione dal voto” e “voto contrario” all’abrogazione (cfr., rispettivamente, ord. 7 dicembre 1999 e sent. n. 33/2000).

L’irrilevanza giuridica dell’astensione dal voto è dimostrata anche dalla disciplina della propaganda referendaria. La legge n. 28 del 2000, infatti, ha stabilito che nella comunicazione radiotelevisiva per i referendum abrogativi gli spazi siano “ripartiti in misura eguale fra i favorevoli e i contrari al quesito referendario” (art. 3, comma 2, lett. d), escludendo qualsiasi valore alla posizione di chi invita a disertare le urne. Proprio in questi giorni, correttamente, l’Authority per le Telecomunicazioni ha previsto che nella campagna elettorale sulla procreazione assistita le posizioni da tenere presenti nella ripartizione degli spazi siano solo quelle dei sostenitori del SI e del NO. Del tutto fuorviante è poi l’idea che l’astensione costituisce un legittimo espediente nel referendum abrogativo perché così si può contrastare un’iniziativa che, a differenza delle elezioni, non interessa la generalità dei consociati, ma viene sollecitata da una minoranza di cittadini. Anche qui si scambiano i piani. Proprio per evitare che il corpo elettorale venga coinvolto su temi di parte o in contrasto con valori costituzionali è stato previsto il procedimento di controllo delle richieste referendarie. Dopo il via libera dell’Ufficio centrale e della Corte costituzionale, però, la richiesta di referendum abrogativo diviene pienamente legittima, e per questo meritevole di essere sottoposta al giudizio del popolo, il quale attraverso il voto, la partecipazione nel voto, potrà esprimere (secondo le tre possibilità SI, NO, astensione nel voto), la propria volontà nel merito della domanda referendaria. Astensione e libertà di propaganda. Un discorso in parte diverso merita, inoltre, la valutazione del comportamento di chi fa propaganda per l’astensione. Da parte di alcuni si ritiene che, come qualsiasi forma di propaganda, anche l’invito a disertare le urne, sia pienamente legittimo, rientrando nella più ampia libertà di manifestazione del pensiero garantita dall’art. 21 della Costituzione. Si tratta di una tesi corretta. Del resto l’ampiezza della libertà di pensiero è tale da ricomprendere addirittura la legittimità della propaganda per valori contrari a quelli previsti dalla Carta fondamentale, in conformità all’idea di una democrazia aperta che, a differenza delle democrazie protette, ammette anche idee antisistema. Anche in questo caso è però necessario non fermarsi sulla superficie del fenomeno, ma provare a distinguere. La libertà di manifestazione del pensiero non è, anche nel nostro ordinamento, priva di limiti. Un conto è infatti la libertà delle idee (che possono anche essere eversive dell’ordine costituzionale), un conto le idee che si traducono in azioni destinate a incidere sull’esercizio di diritti costituzionali o addirittura a sovvertire l’ordinamento costituzionale. Un conto è allora la propaganda per l’astensionismo come manifestazione di opinione, altro conto è la propaganda che si risolve in un’azione organizzata volontariamente per coartare il libero convincimento dell’elettore. Del resto, come si è visto, la Costituzione (art. 48) esige che il voto sia libero, ossia privo di costrizioni o di forme di coazione della volontà del cittadino elettore. E la Corte costituzionale è molto rigorosa nel chiedere il rispetto di quel principio, ritenuto un valore fondante dei processi di decisione popolare e delle regole per la propaganda elettorale e referendaria (sentt. nn. 344/1993, 49/1998 e 502/2000). Organizzare la diserzione dalle urne, al limite, può risolversi in una forma surrettizia di controllo sociale della partecipazione al voto, con conseguenze anche sull’effettività del principio di segretezza del voto. L’invito a disertare le urne, ancorché riconducibile nell’ambito della libertà di propaganda, meriterebbe di essere differentemente apprezzato anche in ragione dei soggetti che lo manifestano. Altro è l’appello al non voto fatto da un comune cittadino, altro l’invito a disertare i seggi svolto da chi è titolare di cariche pubbliche. Con riferimento a questi ultimi non sarebbe così astruso costituzionalmente ipotizzare un dovere di correttezza costituzionale che impone loro di rispettare le regole democratiche e i diritti dei cittadini. La Costituzione del resto prescrive per i partiti e, quindi, anche per i titolari degli organi costituzionali di partecipare alla vita politica con “metodo democratico” (art. 49), così come per i funzionari pubblici è previsto un agire imparziale e responsabile (art. 28). Questo significa che la libertà di opinione, che è parte della libertà dell’agire politico di coloro che hanno responsabilità istituzionali (come il Presidente della Repubblica, i Presidenti delle Camere, il Presidente del Consiglio, i Ministri, ecc.), trova un limite più stringente che non nei confronti del comune cittadino proprio nell’esigenza di rispettare le leggi e le regole della dialettica democratica. Nei referendum sulla procreazione sono gli stessi parlamentari che hanno votato la legge che, invitando a disertare le urne, vogliono sottrarsi al confronto popolare, anziché dimostrare democraticamente di essere in sintonia con la maggioranza degli elettori. I valori in gioco e il pluralismo democratico. Un ultimo profilo. Vi è chi dice (come alcuni esponenti della Curia) che il 12-13 giugno non si deve votare perché sono in gioco valori – quelli che circondano il concetto di persona umana – universali e perciò non negoziabili. Si tratta di una critica sottile. E’ vero che in un sistema democratico vi sono valori che non ammettono in linea di principio decisioni a maggioranza. Ma il fatto è che nel caso dei referendum sulla procreazione assistita manca proprio quella condivisione generalizzata che costituisce il presupposto per considerare l’embrione una persona umana. Del resto se si trattasse di un valore indiscusso non si capirebbe perché la legge 40 è stata approvata solo da una parte politica e ora, addirittura, disconosciuta da alcuni di coloro che l’avevano votata. In realtà, uno dei principi fondamentali del costituzionalismo liberaldemocratico prescrive che quando sono in gioco valori altamente controversi ciò che il processo decisionale deve veramente assicurare è il rispetto del pluralismo delle opinioni. In simili casi, dunque, il problema non è se sia legittimo o meno decidere a maggioranza, ma garantire che le decisioni siano assunte con il consenso più ampio possibile e, comunque, nel rispetto dei diritti di chi resta in minoranza.

Articolo pubblicato su il Riformista lunedì 23 maggio 2005 – Professore straordinario di diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bologna.

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