Gomorra orfana di Gomorra

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Gomorra orfana di Gomorra, questa è la sensazione che ho avuto da spettatrice.

La prima parte di “Gomorra-la serie” per la regia di Sollima è stata molto ben accolta dalla critica e dagli spettatori televisivi. Non so quali siano i termini di paragone in base ai quali la serie venga definita bellissima, addirittura migliore della realtà, ma posso immaginare. Si tratta di un  prodotto ben confezionato ma non eccellente, freddo, che ha dei difetti e qualche incongruenza.

Non ha nulla a che vedere col film, il meraviglioso “Gomorra” di Matteo Garrone, e questo lo puntualizzano lo stesso Sollima  e Roberto Saviano, ma non ce n’era bisogno. Non emoziona, non eccita, non ci spaventa, non ci indigna: è proprio una fiction da guardare stravaccati sul divano dopo cena, di quelle che mostrano la violenza e la brutalità di un mondo che è reale senza darci la possibilità di scendere all’inferno coi protagonisti, né di provare raccapriccio. Scampia  ormai è un set cinematografico, a forza di reiterarne lo stereotipo quel quartiere se ne muore sullo schermo, non fa più orrore. Se non la conosci veramente, Scampia non la sai raccontare, non sai mostrarne quella oscurità, quella voragine triste e dolente, non puoi con la tecnica, non puoi se rimani lucido pensando al prodotto finito, al massimo riesci a fare in modo che sia alla portata di tutti. Malgrado la partecipazione attiva di Saviano, che queste storie ce le ha nelle viscere e nella testa più di chiunque altro, a Sollima manca l’ispirazione, ogni cosa si riduce al saccheggio di un’idea originale, l’agghiacciante stupore suscitato dal libro di Saviano qui è ridotto all’imbrattamento col sangue di locali, abitazioni e cortili.

I dialoghi non funzionano almeno quattro volte su dieci. Quando si sceglie il dialetto lo si deve fare fino in fondo, e lo si deve fare bene. Il napoletano è canto, intonazione, prima di tutto. Penso al dialetto adoperato da Garrone nel film “Reality” e mi immalinconisco, mi viene nostalgia. Un “guaglione” rozzo e volgare non può dire che il boss “è impegnato”, nessuno in quella realtà si esprimerebbe a quel modo. E ancora: Ciro (il bravo Marco D’Amore) e il figlio del boss discutono di un’azione pericolosa da mettere in atto la sera seguente. “Tieni paura?”, chiede l’uno, e l’altro risponde “Perché, ti fa strano?” Il brivido dell’attesa snervante, quella morsa alla bocca dello stomaco che accomuna il torero, il pugile, il combattente e il criminale sono andati perduti non so dove.

Che dire poi dei dialoghi tra Imma e il boss, suo marito, quando ragionano sul da farsi nel momento in cui l’uomo comprende di essere spacciato?  Non frequento affiliati della camorra ma sono napoletana e in alcuni momenti ho sorriso. Così come suscita il sorriso la maniera in cui si cerca di farci comprendere che le figure familiari (la madre, la moglie, i bambini) per i camorristi sono oggetto di un rispetto e di un amore viscerale abnormi. L’esito di alcune scene finisce col rievocare Benigni quando nelle vesti di Johnny Stecchino parodiava il mafioso che si raccoglieva in sé e sussurrava devoto: “Mia madre!”

Molto meglio invece la fotografia, le scenografie, quegli appartamenti tanto lussuosi quanto cafoni, l’iconografia di santi e madonne che proteggono e rassicurano gente pronta a morire tutti i giorni sin dall’adolescenza. In conclusione si può dire che dal punto di vista strettamente commerciale l’operazione funzionerà, ma non basta attenersi alla narrazione di uno spaccato reale per credere di aver fatto un bel lavoro.

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