Panopticon è un cazzotto in faccia

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Panopticon è un cazzotto in faccia in forma di romanzo. Bella parola, Panopticon. Viene da lontano: in un giorno dell’anno 1791 un giurista filosofo, Jeremy Bentham, progettò l’edificio carcerario ideale, il Panopticon, appunto. L’etimo della parola ci dice subito che Bentham aveva immaginato una struttura fatta in modo che tutti (pan) potessero essere osservati (opticon) in modo da scongiurare e scoraggiare i comportamenti scorretti, violenti o illeciti degli ospiti.

Una vera trovata, soprattutto agli occhi di Jenni Fagan, autrice dello struggente romanzo (ISBN edizioni), la quale sin dalla prima pagina è proprio là che ci conduce: in un riformatorio a forma di grossa falce di fronte al quale c’è una torretta che permetterebbe ai controllori dell’istituto di osservare in qualunque momento tutti gli ospiti, anche quando andassero a fare una doccia in bagno.

Jenni Fagan ci affida all’io narrante di Anais Hendricks, un’orfana  quindicenne che prima di approdare al Panopticon ha cambiato una cinquantina di sistemazioni passando da una struttura all’altra e da una famiglia affidataria all’altra. Non ha radici, non ha affetti, nessun legame di sangue, l’unico ricordo tenero e caldo della sua vita è Teresa, una prostituta che l’aveva adottata e che è morta ammazzata quando Anais aveva undici anni.

La storia, che in parte è autobiografica (Fagan ha vissuto 16 anni in case-famiglia), è talmente cruda e veritiera e forte che avvolge il lettore come una spirale dai piedi fin sopra ai capelli e non gli lascia scampo. Se non si può sviluppare un processo di identificazione con Anais non avendo avuto dalla sorte un’esistenza che somigli alla sua, si finisce, volenti o nolenti, per assorbirne tutte le inquietudini, si finisce shackerati nel giro di 70 pagine dietro di lei, e si può lasciarla libera di frantumarci lo zenit mentre ci descrive gli effetti sensoriali dello skunk, degli acidi e della ketamina che le risolvono giornate e momenti altrimenti insopportabili, oppure mentre ci racconta del suo “gioco del compleanno”, un fantasioso stratagemma col quale si consola immaginando ogni volta una discendenza diversa, genitori speciali, natali parigini e ricordi inventati, o ancora quando ci vuole convincere che lei è il risultato di un esperimento di laboratorio, una non-umana, diversa dagli altri.

Jenni Fagan ci mette davanti a un’umanità sgangherata, strapazzata, ubriaca, ci fa entrare in un mondo border-line da cui è difficilissimo svignarsela e che esiste davvero, da qualche parte, anche se non ci badiamo mai. E’ così che si riesce a sentire lo squarcio profondo dell’essere soli al mondo, quel terribile senso di annientamento che assale chi sa di non aver mai amato e di non essere mai stato amato da nessuno: e quando quello squarcio raggiunge lo stomaco del lettore è come precipitare dal cielo per terra senza un paracadute, facendo un botto sonoro. Un’esperienza come quella di Anais e dei suoi amici si esprime violentemente, si esprime a parolacce e a duro sarcasmo, però in mezzo a tanta durezza ci passa di continuo l’alito della poesia, e brilla una purezza inconsapevole, quella tipica dei perdenti.

Le ultime 100 pagine sono un crescendo straripante e straordinario di letteratura alta, un crescendo musicale che sembra non finire mai e che invece s’acquieta su una speranza. Un romanzo da leggere subito, prima che il pur bravissimo Ken Loach abbia finito di girare il film, assolutamente prima che la storia arrivi nelle sale cinematografiche.

 

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