Agota Kristof, parole come coltellate

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Agota Kristof, parole come coltellate

Chi non ha mai letto Agota Kristof ha perso molto. L’autrice ha scritto il suo libro più bello negli anni ’80, “Trilogia della città di K”, che ha suscitato scalpore e che prima in Francia e poi in Italia è diventato un caso letterario. Sembra un romanzo scritto da un uomo duro e giovane, ma non è sorprendente: mi  arrabbio sempre quando sento parlare di letteratura al femminile. Sciocchezze. A me le distinzioni di genere non piacciono per niente, sono ghetti, sono roba che va bene per il politically correct.

“Trilogia della città di K” non è politically correct, non ha una morale né rispetta un’etica, invita anzi costringe a sospendere il giudizio. Racconta di due gemelli, due bambini che crescono in un contesto difficile e disgraziato che è quello di un Paese occupato dagli stranieri, in piena rivoluzione. I gemelli vivono un’infanzia crudele imponendosi, proprio come se fossero due militari in addestramento, prove e sacrifici per imparare a sopportare meglio i dolori e le difficoltà, per imparare a non farsi umiliare, sfruttare o compatire. La loro forza impressiona, la loro determinazione spaventa. Bellissimi oltre che dotati di un’intelligenza non comune, esercitano il loro fascino sugli individui che incontrano e in un modo insinuante sul lettore, che più legge e più non si può fermare, costretto a decidere di lasciar perdere tutto il resto e di seguirli, di arrivare alla fine, costi quel che costi.

Verso la conclusione ci si arriva metaforicamente pieni di tagli e ferite da frusta più o meno profondi, questo dipende dalla sensibilità e da quanto si è attrezzati psicologicamente. La scrittura di Agota Kristof è talmente asciutta e fredda, talmente affilate come coltelli sono le parole che è quasi impossibile salvarsi: è devastante. Perfino la sensualità, che in certe pagine diventa profonda come una voragine, è fatta di una materia diversa, nuova, ed è inutile cercare di spiegarne la forma o la sostanza. Non vi è dolcezza, né esiste la bontà: non nel senso comune. E’ la realtà senza limature, senza un solo fronzolo, senza rataplan, mobile e fluida ma che non concede il tempo di farsi domande e che non fornisce risposte.

I gemelli diventano adulti: ognuno ha preso una strada diversa, uno è rimasto dov’era sempre stato e l’altro è andato lontano. E’ verso la fine del romanzo che il lettore – mentre arranca dietro ai due fatali protagonisti – comincia a domandarsi cosa ha letto, cosa è veramente accaduto, e se i gemelli non fossero che una sola persona.

Letteratura alta, un capolavoro senza tempo come i classici. Da leggere e rileggere.

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