Le donne fuori dagli schemi

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Le donne fuori dagli schemi

Ultra Violet, la musa di Dalì e di Warhol, se n’è andata lo scorso giugno per un cancro, poco prima di compiere 79 anni. Se avesse un vero talento d’artista non si può dire, che fosse arte la sua effervescente esistenza è un dato certo.

Le donne fuori dagli schemi, quelle con un innato talento per la demolizione sistematica di tutti i valori precostituiti, quelle che muoiono più di una volta prima di capitolare definitivamente e che fanno dell’esistenza un’opera bizzarra e spericolata sono piuttosto rare. Dimenticarsi di Isabelle Collin Dufresne a pochi mesi dalla morte e dopo aver letto sui giornali svariati coccodrilli – alcuni microscopici – sarebbe un peccato. Dare uno sguardo, oggi, alla sua vita fortunata e difficile, è come vedere un film psichedelico. Si parte da Grenoble, capitale delle Alpi francesi alla foce dell’Isère, e si finisce a New York.

Isabelle nasce da una famiglia aristocratica e diventa molto presto il più grande cruccio dei signori Dufresne: è strana, e più cresce e più lo si capisce, che è strana. Disperati e incapaci di comprenderla, i genitori arrivano al punto da decidersi a chiamare un prete esorcista perché le tiri fuori dal corpo il diavolo: è il 1950, Isabelle ha 15 anni e l’esorcismo naturalmente non le serve a niente. Più che il diavolo in corpo la ragazza ha energia da vendere, una specie di fuoco sacro che la divora e coltiva insoddisfazioni a iosa, costretta metaforicamente in una gabbia. A sedici anni finisce in una gabbia vera, quella di un riformatorio, dove pare rimanga per più di un anno, mentre i familiari prendono fiato.

A vent’anni finalmente la svolta: Isabelle se ne va, lascia Grenoble e le montagne e parte per New York. Una ragazza di provincia un pò velleitaria, senza appoggi né conoscenze che si aggira per New York in cerca di avventure è facile che si perda e che finisca col lavare piatti in qualche ristorante di Broadway, se le va bene. Isabelle non è un’ingenua, ha davvero qualcosa di speciale appiccicato addosso, e soprattutto non sceglie di frequentare luoghi a casaccio: prende la mira e si fa notare da Salvador Dalì, che ne apprezza la bellezza e che in poco tempo ne fa la sua musa ispiratrice e – si dice – la sua amante. Isabelle comincia  a mettere le basi per tramutare estro e talento in progetto artistico, ma per alcuni anni prosegue con la sorprendente e inusuale carriera di musa all’ombra dei baffi di Dalì e della contenuta gelosia di Gala, moglie dell’artista.

Porta i capelli tinti di viola, un colore da artista. Nel 1964, a 29 anni, Isabelle un bel giorno si veste di rosa – che si abbina perfettamente al viola – e va a bere un thé con Dalì al bar del St. Regis Hotel. Chi ti incontra? Un principe azzurro che la sposa e che la rende felice per il resto della vita? No, questo non è un film banale. Incontra Andy Warhol. Da quel momento Isabelle cambia nome e diventa Ultra Violet, cambia artista e diventa la musa ispiratrice di Warhol. Si rivela un’abilissima quanto vivace organizzatrice di tutti gli incontri, le mostre e i progetti della famosa Factory di Warhol. Il sodalizio tra i due è di quelli speciali, la coppia fa scintille e la notorietà di Ultra Violet cresce talmente che ormai quando riceve posta sulle buste c’è scritto solo “Ultra – New York”.

Ultra Violet partecipa come attrice a ben 17 film di Warhol, comincia a dipingere e ormai è a tutti gli effetti un’ artista d’avanguardia. Non si ferma mai, lascia la Factory nel 1970, frequenta molto i set cinematografici e compare in film di Allen, Ivory, Mazursky, Shlesinger, Milos Forman, col quale ha una storia sentimentale. Nel 1973 un terribile incidente stradale la riduce in fin di vita, entra in un coma da cui – dicono i medici – non uscirà mai più. Invece Ultra, di nome e di fatto, miracolosamente si risveglia. Attraversa un periodo di depressione, si convince che l’incidente abbia un significato, che sia come un segnale che le indica una svolta. Si converte, si avvicina ai Mormoni, scolpisce statue a tema religioso e scrive un lungo saggio sull’apocalisse di San Giovanni. Il suo libro preferito è la Bibbia.

Durante tutta la sua vita da adulta produce numerose opere d’arte, installazioni luminose al neon e a Led, quadri, sculture. Un mese prima della sua morte una retrospettiva in una gallery di Manhattan raccoglie circa 40 opere di Ultra Violet e fa il pienone. Famosi il suo Topolino disneyano con le ali, la sedia elettrica bi-posto, un’opera che è un memoriale per le vittime del crollo delle Twin Towers. Ha scritto anche un’autobiografia che è un meraviglioso omaggio a Warhol, la pubblica a un anno dalla morte dell’artista e il libro diventa presto un best- seller. Dopo aver amato uomini come Dalì, Forman, Nureyev, Ruscha, dopo le feste, la droga, il caos, Ultra Violet si dedica all’arte e alla scienza, coltivando per quest’ultima un interesse un pò confuso ed elaborando teorie vaghe e suggestive, al limite del razionale. Se n’è andata lo scorso giugno, poco prima di compiere 79 anni, per un cancro. Se avesse un vero talento d’artista non si può dire, che fosse arte la sua effervescente esistenza è un dato certo.

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