Elena Ferrante tra letteratura e marketing

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Elena Ferrante tra letteratura e marketing

 

Elena Ferrante tra letteratura e marketing. Vi sono enormi dislivelli e molte discriminanti tra i colossi dell’editoria e tutti “gli agganciati” rispetto agli altri. Di solito ogni volta che c’è da criticare i best sellers e i giganti dell’industria del libro, intellettuali e opinionisti intoccabili e iconici sono tutti in prima fila, e tuonano, e si ergono a paladini dei nani, vale a dire di editori minuscoli e scrittori ignoti. Sono solo parole. Di fronte ai fatti i paladini tacciono, oppure prendono subito le difese dei suddetti colossi e agganciati. Faccio due esempi, e tutti e due riguardano il fenomeno editoriale Elena Ferrante. Il primo esempio è l’ultima edizione del premio Strega, in occasione del quale venne dato con grande risalto mediatico l’annuncio dell’apertura ai piccoli editori. Ebbene, quell’apertura era uno scherzo, una finta: apparentemente la nuova norma che stabiliva l’inserimento di un libro edito da un piccolo o medio editore nella cinquina dei finalisti sembrava favorire finalmente quella parte del mondo editoriale che è sempre stata esclusa dai giochi. Invece non è stato così, i favoriti in ogni caso restavano e restano i grandi, le case editrici con maggiori possibilità economiche, maggiori contatti, maggiori opportunità per interferire sul giudizio dei giurati. Come sempre, nuove regole e vecchi sistemi. Il perché è presto spiegato: la nuova regola inaugurata impone(va) ai piccoli editori di regalare 500 copie ai giurati. 500 copie omaggio per editori piccoli e indipendenti sono un salasso, non se lo possono assolutamente permettere, al massimo potrebbero regalare una quarantina di copie, e non è possibile che il comitato direttivo del premio non conoscesse questa realtà. Un editore piccolo stampa al massimo un migliaio di copie di un libro: come fa a regalarne la metà? Solo questo basta e avanza per capire che certe volte le regole si inseriscono in fretta e furia solo per favorire la presenza in cinquina di qualcuno, nel caso specifico di uno in particolare: Elena Ferrante, la quale pubblica con un editore medio. In occasione del Premio Strega fece sapere a mezzo stampa che se il suo libro non fosse rientrato tra i finalisti la prestigiosa manifestazione sarebbe stata indifendibile.

Il secondo esempio è recentissimo: Il Sole24 ore ha pubblicato i risultati di un’inchiesta iniziata tempo fa per scoprire chi fosse Elena Ferrante. L’articolo è stato ripreso dalla stampa internazionale (Ferrante è un talento che vende milioni di copie all’estero, anche negli USA) ed ha suscitato molte reazioni negative. Notissimi e stimatissimi rappresentanti della cultura e della letteratura hanno inveito contro il giornale di Confindustria e dei poteri forti, e il popolo tutto si è indignato. C’è stato perfino qualcuno che su Twitter nella foga ha paragonato l’inchiesta al famigerato metodo “Stasi”, un’indegna operazione punitiva di sporco spionaggio, “con accenti sessisti e sciovinisti”, messa in atto per lo smascheramento della “donna ebrea ricca e bugiarda”. Hullallà, che paroloni! E quanto puritanesimo. Vero è che l’indagine dei giornalisti de Il Sole sembra commissionata da Equitalia ed entra in certi particolari di nessun interesse. Vero è che viene il sospetto che la situazione drammatica in cui la testata si trova attualmente abbia reso indispensabile il ricorso allo scoop, un tipo di scoop che attirasse l’attenzione di tutti e non soltanto dei lettori abituali. E’ la legge del mercato, e così finisce che chi di scoop ferisce di scoop perisce.

Ferrante/Anita Raja – non si sa se spinta dagli editori o di propria iniziativa – ha effettivamente fatto ricorso per un quarto di secolo ad un espediente: l’anonimato, condizione della quale si è parlato fin troppo, anche più che dei romanzi. E’ chiaro che quando non ci si mostra, in un mondo fondato sull’eccesso di visibilità, ci si fa notare molto più che perdendosi con gli altri nell’orgia presenzialista. Chi ha deciso di costruire questo personaggio lo sa benissimo e i risultati li ha toccati con mano. Vi sono nella storia diversi casi – completamente diversi da questo – di scrittori che hanno fatto ricorso a pseudonimi, senza perseverare a lungo nella difesa della totale segretezza: Virginia Wolf, per esempio, scrisse per un periodo firmandosi con nomi maschili perché ai suoi tempi le donne ricevevano scarsa attenzione. Siamo tutti sinceramente lieti per la Ferrante e per l’editore, ma che sia estranea a certi giochetti – lei la sola cosa vera in un ambiente tutto finzione – è la negazione dello spirito laico che la cultura dovrebbe rappresentare. La scrittrice non è estranea all’ambiente letterario: sono certa che se non fosse stata la persona che è – vale a dire una donna di cultura già ben inserita nel mondo editoriale in qualità di traduttrice dal tedesco nonché moglie di un noto scrittore napoletano (farlo notare è sessismo !!) – le sarebbe stato impossibile conservare così a lungo la segretezza, che di per sé è lecita, e che rende bene, perché è di indiscutibile impatto mediatico. Il talento qui non c’entra niente: se si approfitta dell’espediente per incuriosire e per aumentare il grado di attenzione su di sé si corre il rischio di essere obbligati ad ammettere che il merito del successo stratosferico va diviso equamente tra le capacità reali e il sapiente marketing. Non sto dicendo che i romanzi della Ferrante siano di scarso valore letterario (i miei gusti personali non contano proprio nulla), sto dicendo che essi sono parte di un progetto costruito a tavolino.

Gli indignati, i lettori affezionati e la scrittrice possono stare sereni. L’inchiesta fatta apposta per far rumore fuori dalle righe, plateale e perciò efficacissima gioverà parecchio alla Ferrante. Il modo indelicato in cui le è toccato venire alla luce fa di lei una martire del “sistema reazionario e questurino” ,una vittima. Quasi quasi è meglio che scrivere protetti da uno pseudonimo.

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