Fight Club non s’intitolava così

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Fight Club non s’intitolava così, Chuck Palahniuk aveva scelto di intitolarlo Fuck you perché voleva dare una lezione a tutti gli editori che precedentemente avevano rifiutato di pubblicargli Invisible monsters, un altro capolavoro in cui la ripetizione ossessiva della frase “vai a quando” che precede ogni episodio equivale alla ripetizione delle immagini nell’arte di Andy Warhol: la ripetizione come un mezzo per annullare e accentuare la convenzionalità del quotidiano e l’horror vacui del conformismo, cifra stilistica che ritroviamo in Fight Club, insieme all’uso frequente del flashback . Il libro è stato scritto in soli tre mesi in uno di quei readings che alla fine degli anni ’90 erano affollati di scrittori e poeti e durante i quali il ritmo narrativo era velocissimo e lo stile adottato doveva riprodurre la lingua parlata, in totale contrasto con la pulizia formale dello stile accademico. Gli scrittori come Palahniuk, Wallace ed Ellis volevano (e vogliono, a parte Wallace che non c’è più) descrivere la realtà con tutte le sue disfunzioni, raccontare disagio esistenziale, corruzione, malattie, dolore e frustrazioni senza indorare la pillola, usando il linguaggio della vita reale. Leggere Fight club non è un passatempo, non si tratta di un romanzo digeribile ma di qualcosa che resta sullo stomaco a lungo.   

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E’ un romanzo post-moderno, apocalittico e disperato e senza nessuno spiraglio, un noir nichilista sull’anarchìa e sulla violenza che caratterizzano i giovani traditi dalla società e dalla storia. Quando il libro è stato pubblicato e ancor più quando ne è stato ricavato il notissimo film, negli States ha suscitato accese proteste sia sulla stampa che tra le persone comuni: si giudicava soprattutto l’eccesso di violenza, si riteneva che la storia fosse diseducativa per i ragazzi e pericolosa per la loro formazione. Anche in Italia l’editore che per primo lo ha pubblicato ha mostrato non solo coraggio ma anche un sano desiderio di sfida. Palahniuk descrive la violenza dei combattimenti che ogni fine settimana si svolgono nei fight clubs con il gusto del paradosso e con grande ironia, un’ironia pulp che toglie il respiro: la brutalità di cui parla non è la stessa dei teppisti di strada, non è quella delle crew o delle bande metropolitane, non somiglia neanche a quella degli accoltellamenti fuori e dentro le discoteche e gli stadi, è al contrario simbolica, catartica e liberatoria.

I fight clubs li ha messi in piedi Tyler Durden, uno strano personaggio con un’immaginazione che supera i limiti del grottesco e che anela alla dissoluzione del mondo per poterne reinventare un altro molto migliore senza nessuno spargimento di sangue. Nei clubs ci vanno tanti ragazzi perbene accomunati dal medesimo rancore nei confronti del mondo intero, ragazzi delusi che non riescono più a vedere un futuro e a credere in qualcosa. Si picchiano a sangue, però tra loro non c’è nessuna gara per la conquista di una vittoria sugli avversari, si picchiano e basta. Alla fine della lotta essi si ispezionano affettuosamente a vicenda per assicurarsi di non aver massacrato nessuno al punto da comprometterne la salute. Dal lunedì al venerdì questi muscolosi combattenti conducono esistenze del tutto normali, se così si può dire: vanno a lavorare ammaccati con i loro occhi cerchiati di blu, le labbra spaccate, le ossa doloranti e vanno anche – come fossero ragazze ipersensibili – a singhiozzare e a versare fiumi di lacrime nei centri di assistenza per malati terminali. Con i morenti si sentono confortati da un calore umano che fuori di lì non trovano più ma non provano a consolarli perché, come scrisse Fernanda Pivanosanno che sarebbe inutile, sanno che i governi di tutto il mondo e di tutti i colori spendono miliardi per armamenti tesi a uccidere milioni di ragazzi in guerre totalmente inutili che servono soltanto a sostituire un dittatore sanguinario con un altro dittatore sanguinario, ma non sovvenzionano le università e gli istituti per la ricerca sul cancro“. 

Palahniuck è un talento straordinario, un grandissimo scrittore, un innovatore  i cui romanzi possono essere ritenuti “letteratura di gerere” (pulp), il che non gli rende merito del tentativo – tra l’altro più che riuscito – di reinterpretare gli scrittori post-moderni che lo hanno preceduto operando una ricerca stilistica interessante che si accordasse alla perfezione con l’esigenza di affrontare contenuti nuovi e tematiche che avessero uno scopo importante e imprescindibile: denunciare, esaltare e deformare una realtà profondamente offesa e decadente. 

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