Meglio un garage che Yale?

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Meglio un garage che Yale? Jobs, Gates e Zuckerberg non hanno completato gli studi, non si sono mai laureati  e tutti e tre frequentavano le università più prestigiose degli States, quelle della Ivy League che educano le future classi dirigenti a garantire ordine sociale e progresso economico. Non erano neanche studenti modello  ma si facevano certamente notare per la personalità talentuosa. Chiusi dentro a un garage, una volta abbandonati gli studi,  hanno fatto nascere tre idee che hanno cambiato il mondo ed anche la loro vita oltre ogni più rosea aspettativa.

Secondo il parere di William Deresiewicz, autore, saggista e critico letterario americano, nei posti mitici e costosi come Yale, Harvard e Princeton si diventa pecore, replicanti, uomini per metà. Deresiewicz ad Harvard ha avuto una cattedra per ben 24 anni, quindi sa di cosa parla. L’ha lasciata probabilmente perché non si riconosceva più in quel che faceva. Afferma che gli studenti, tutti appartenenti alla upper class, vengono trattati come se fossero dei clienti importanti, dunque con i guanti. Il livello di preparazione che un ragazzo raggiunge frequentando una università che annovera tra le altre qualità i migliori docenti del globo è senz’altro molto alto, ma Deresiewicz ritiene che una formazione d’élite si riveli più svantaggiosa che proficua per il carattere e l’esperienza di un essere umano che dovrebbe aspirare alla completezza. Le eccellenti cittadelle della Ivy League preparano i loro allievi al massimo della competitività, insegnano alla perfezione come svolgere il proprio compito e come ci si comporta e ci si difende in un mondo dominato dal denaro, ma non stimolano in alcun modo lo sviluppo di un pensiero indipendente, originale e critico. In pratica un laureato a Yale ha il lavoro in tasca già prima di lasciare l’università e quasi sicuramente sarà molto molto ricco e influente, ma ragionerà sempre a senso unico, non saprà coltivare relazioni e rapporti con persone di diversa estrazione, di diversa cultura e mentalità. In poche parole gli atenei destinati alle élites plasmerebbero individui univoci e per nulla flessibili, pronti a gestire il successo ma non le difficoltà. Viene spontaneo ripensare a un libro di Philip Roth, Pastorale americana, e a Seymour Levov, “… un uomo che non è stato programmato per avere sfortuna., e ancora meno per l’impossibile.” Levov è un uomo ricco e perfettamente integrato, la sua vita è improntata al successo e alla felicità evocata dal sogno americano, una vita da “giusto”. Il crollo avviene quando gli imprevisti lo travolgono. Roth dice: “Capire bene la gente non è vivere. Vivere è capirla male, capirla male e male e poi male e, dopo un attento riesame, ancora male. Ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando”.     

Secondo il pensiero di Deresewicz ciò che vi è di non mercificabile in un individuo nelle prestigiose università americane diventa anch’esso merce. Uno studente di Princeton piuttosto che di Harvard considera il successo un valore e uno scopo primario e segue un solco pretracciato, sempre lo stesso: per la vita che lo aspetta non deve farsi delle domande, deve agire al meglio e far fede nel pragmatismo.

Le università americane si sostengono con le laute rette pagate dagli allievi e con le donazioni di cittadini privati, ma anche con i contributi delle imprese, che  finanziano quei corsi di studio che hanno attinenza con il loro settore di interesse. In una bella intervista di Gad Lerner a Roberto Saviano apparsa su Il Post recentemente, lo scrittore campano racconta con entusiasmo la sua esperienza di docente di economia criminale a Princeton. Da quanto ha potuto osservare, non vi è alcun pericolo che le aziende possano fare pressioni sui docenti né che possano aver già deciso a chi affidare un ruolo: nessun raccomandato, nessun “nepotismo” insomma, perché vige una regola ferrea secondo la quale una volta scoperta una qualsiasi scorrettezza il rettore blocca immediatamente ogni rapporto di collaborazione con l’azienda. A noi italiani sembra una cosa impossibile, è difficile crederci. Di veramente buono negli States c’è che sui giovani e sui talenti naturali si investe moltissimo, e le aziende che li assumono non lo fanno per risparmiare pagando il minimo come accade da noi. Qui in Italia da molti anni non si punta sui giovani per fare innovazione, per la crescita e la ricerca, li si usa. E’ così che un paese si ferma, invecchia e non migliora. Ai ragazzi italiani non resta che partire, oppure affidarsi all’ingegno, chiudersi in un garage con qualche amico e tentare di ideare qualcosa di nuovo, magari una buona start-up.

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