Io a scuola non ci vado

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Io a scuola non ci vado

La  scuola non riesce a recuperare e ad attrarre una moltitudine di minorenni che vivono alla periferia della società civile. Il basso livello di istruzione in Italia è un grave problema da risolvere e potrebbe peggiorare a causa della crisi

Io a scuola non ci vado. C’era un ragazzino che tutte le mattine, dopo essersi lavato e vestito in silenzio, dopo aver fatto colazione e dopo aver preso il suo zainetto coi libri, scendeva in cortile e chiamava a gran voce la madre. Quando quella si affacciava al balcone, lui le gridava “Io a scuola nun ce vaco” e poi scappava verso un’altra giornata da vivere in strada. Sempre la stessa scena, tutte le mattine. Era destinato, come tanti altri bambini e adolescenti cresciuti in territori e in famiglie disagiati, a restare ignorante e a lavorare precocemente come garzone di salumeria, se non a delinquere. Una volta cresciuto, ha fatto l’una e l’altra cosa, ma la scuola non è mai riuscita a recuperarlo.

I minori che nascono nel degrado usano linguaggi diversi e quando vanno a scuola sono costretti a reprimere tutte le forme spontanee di espressione che rappresentano il loro mondo. Hanno maggiori difficoltà a leggere e a scrivere e a capire ciò che leggono e ascoltano: la lingua scolastica, quella dei libri e quella degli insegnanti, è per loro ostica ed estranea, esattamente come la storia e la geografia che devono imparare. Se si cresce in una famiglia dove si parla correntemente l’italiano l’adattamento a scuola è quasi automatico, altrimenti in classe ci si può sentire stranieri in patria, e si può anche cominciare a coltivare nel proprio intimo la sensazione di non avere, come i compagni, né cervello né talento.

Per i ceti non agiati la parola non è importante: per comunicare, oltre al dialetto, si usano anche forme di linguaggio non verbale, come i gesti oppure i silenzi che si devono interpretare attraverso la mimica facciale. Nelle case popolari all’ora di cena si verificano due diverse modalità di comunicazione che limitano l’importanza della parola: o si fa troppo chiasso oppure si sta in silenzio, ognuno preso dai propri inesprimibili pensieri. Il dialetto crea una barriera tra coloro che non conoscono l’italiano e coloro che lo conoscono e lo parlano, e questa barriera finisce col diventare addirittura ideologica. Ho timore e vergogna a scriverlo, ma i minori che finiscono in riformatorio paradossalmente riescono a trarre maggiori vantaggi dalla reclusione che dall’esperienza scolastica: imparano un mestiere, imparano a formarsi un’identità, li si educa partendo dalla loro storia individuale senza imporre loro modelli culturali, li si spinge a cercare dentro di sé qualità e talenti nascosti e a coltivarli, a usarli per trarne un profitto economico e per affrancarsi dalla miseria e dalla delinquenza. Non tutti i riformatori sono uguali e non tutti ne escono salvi, ma l’esperienza straordinaria di Nisida dimostra che è possibile aiutare laddove famiglia e scuola non sono riusciti. Questo paradosso è un fallimento per tutta la società, che dovrebbe agire a monte educando per scongiurare la rieducazione.

La scuola, che offre un insegnamento neutrale e uguale per tutti, in realtà mette all’angolo i meno fortunati esercitando su di essi una sorta di violenza simbolica che parte proprio dalla lingua parlata e scritta e che si estende ai contenuti che l’italiano esprime: un ragazzetto di borgata, uno di Scampìa, non possono abdicare alla lingua non perché siano poco volenterosi o poco intelligenti : si tratta, per loro, di assimilare schemi e atteggiamenti che non li riguardano, che per il loro mondo sono arbitrari e forzosi: il lavoro pedagogico dell’insegnante deve omologare tutti gli alunni, e questo cozza con i comportamenti appresi in ambienti codificati, totalmente contrapposti alla prospettiva offerta dalla scuola ma altrettanto reali. E’ quello che Pasolini definiva “scacco alla storia”: l’universo popolare viene isolato, non accolto. I quartieri periferici dentro la scuola sono metaforicamente rifiutati e sottoposti a un giudizio che è giocoforza negativo. Chi vive in quei quartieri piuttosto che omologarsi reagisce negando il valore della cultura per non farsi umiliare: il mio modo di essere e di parlare per me è un valore, dove abito io esso è un valore, è un’alternativa a tutto quello che non capisco e io faccio la mia scelta. Io a scuola nun ce vaco.

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