Judith Malina e il teatro di guerriglia

Share

Judith Malina e il teatro di guerriglia

“I vecchi teatri non sono altro che una seduzione per i valori borghesi. L’arte è dispensabile, lo scopo dell’arte è distruggere il bisogno dell’arte.”Judith Malina.

Judith Malina e il teatro di guerriglia, Judith Malina e Julian Beck: chi li ricorda, e i ragazzi ne sanno qualcosa? Stamattina un amico virtuale mi ha fatto sapere che Malina è morta il 10 aprile a 88 anni e in pochi secondi ho deciso di scrivere qualcosa sul Living Theatre, che nel secolo scorso fu una sorta di cavallo di Troia piazzato al centro del teatro tradizionale: dal ventre di quel cavallo scesero l’anarchia, la controcultura, Duchamp e Artaud, Jarry e Cocteau, Picasso e Brecht, Sacher-Masoch, linguaggi frantumati, sogni da realizzare, la provocazione politica e – prepotente – l’ideologia della disobbedienza civica.

Il Living Theatre dava ancora più voce a una generazione psichedelica e all’America pop degli autoesclusi, e lo faceva con l’intento e la convinzione di opporsi al sentore di morte del potere con la poesia. Santuari e feticci crollavano sotto i colpi della rivolta, e i testi sparivano: la parola magica era improvvisazione, e all’improvvisazione si unì la creazione collettiva attraverso il coinvolgimento dello spettatore, che come figura passiva che subiva doveva sparire per rinascere come protagonista: chi guardava doveva a un certo punto mettersi in gioco, partecipare, soffocare con la propria creatività repressa la pena del dissolvimento sociale. Poi arrivò la strada, l’invasione work in progress delle piazze, delle vie, di una città intera: il teatro doveva cambiare gli uomini, la società, il mondo. In Brasile gli fecero assaggiare – più che la libertà – la reclusione in carcere.

Dagli Stati Uniti, dopo arresti, processi, chiusure dei teatri per ragioni di sicurezza, Judith Malina e Julian Beck col loro cavallo di Troia furono allontanati quando cominciarono a prendersela con guerre, esercito e bombe, atomiche e non. Ripararono in Europa. Fernanda Pivano raccontava delle feste – anzi, dei parties – a Milano (le signore dei salotti coi fili di perle, Judith col simbolo antinucleare appeso al collo), dei premi a Parigi e dei fischi all’Odéon, della loro magrezza esagerata, inconcepibile, da vegetariani che non toccavano neanche il pane per accompagnarci la verdura e s’incazzavano al ristorante perché credevano che i risotti li avessero cotti nel brodo di carne, e poi raccontava di un camioncino sul quale i due viaggiavano insieme agli attori della compagnia, un camioncino che avevano potuto comprare coi soldi dell’Edipo di Pasolini.

“…Ristoranteaprezzofisso, pelle livida dal freddo, sandali e fragili indumenti da estate sulla neve ghiacciata, ma Judith, e il cappotto?” Pivano si domandava dove avesse lasciato il cappotto la delicatissima Judith. Venduto, lasciato in pegno in un albergo senza stelle per pagarsi il soggiorno, venduto insieme a un baule pieno di vestiti. Ma Judith e Julian non avevano bisogno d’altro che della loro immaginazione, che lui chiamava survival-kit. Avevano una missione sacra, erano a metà tra un soldato e un sacerdote, persone di fede, fanatici senza dubbio alcuno. Consideravano l’arte e il teatro mezzi per redimere l’uomo. “L’arte deve opporsi allo Stato o distruggere la propria forza vitale. Quando lo Stato accatasta onori sull’arte è un sistema per dire che questa arte non pone in pericolo la classe dirigente. Guàrdati dall’approvazione e dal supporto ufficiale”, scriveva Beck. E ancora: “Rockefeller colleziona De Kooning, a Wall street leggono Ginsberg, Jacqueline Kennedy adora Manet. Stanno portando via tutto”.

Può il teatro cambiare l’uomo? La risposta naturalmente è no: Beck e Malina non sono riusciti a cambiare il mondo e gli uomini e nemmeno il teatro, per quanto dopo di loro almeno tre generazioni gli abbiano fatto eco e abbiano ricalcato le loro orme. Dopo la morte di Beck, Judith Malina andò avanti fino all’esaurimento delle risorse economiche, che venero a mancare. La forza fisica non le è mancata mai, fino all’ultimo, benché si sentisse triste perché non sopportava di stare chiusa in un asilo per anziani dell’Actor’s Studio.

 

Fonte: Julian Beck – La vita del teatro – Einaudi Editore

Share
Precedente Di Salvini, dell'amore e dell'imparzialità in tivù Successivo Chiambretti e il suo hotel burlesco