La grande bellezza, un oscar alla pietas

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A me i film di Sorrentino fanno l’effetto di certe musiche, che quando le ascolti metti tutto a fuoco, ami il mondo così com’è e per qualche minuto credi non solo di avere capito tutto, ma di partecipare corpo e anima alla gioia e al dolore, allo spirito e all’essenza della vita. Insomma stai nel calderone.
Sorrentino è iperrealista. Troppe immagini, digressioni a iosa, e frasi. Ci sono delle frasi nei suoi film che sono gioielli, esattamente come quelle che ci folgorano quando leggiamo un gran libro. La trama per lui conta molto meno del senso, mi sa.
I suoi film una trama ce l’hanno, una strada maestra la seguono, ma quella strada, a destra e a sinistra, è sempre piena di vicoli. E’ dentro quei vicoli che si vedono le cose più interessanti. Anche ne “La grande bellezza“, che è un film sulla morte, un film difficile, da rivedere almeno due volte per poterne assimilare la struttura che ha due prospettive, una poetica e l’altra culturale. La poesia e la crisi di giudizio su uno stile di vita e su una società in declino stanno tutte e due assiepate nella coscienza, nello sguardo e nelle parole del protagonista, ex enfant prodige ormai 65enne, che non può abdicare né rifiutare perché è contemporaneamente dentro la scena e fuori di essa, un attore-spettatore capace di smascherare se stesso e gli altri senza pudore né indulgenza, qualche volta con cattiveria e qualche volta furbescamente ma sempre con una inesauribile compassione. Il miracolo che salva il protagonista del film avviene in virtù di quello sguardo di autentica compassione e di umana pietas.

Alcuni hanno scritto che a salvarsi, tra tutti, sono coloro che muoiono (Ferilli e Franek) e coloro che scappano altrove (Verdone). Jep Gambardella,  che decide di scrivere il suo secondo romanzo, per me è il solo vero vincitore: ha compreso tutto e rimane.

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