Le parole sono importanti

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Le parole sono importanti

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Il vero cambiamento del linguaggio politico non è avvenuto con Marco Pannella, anche se i radicali sono stati i primi ad abbandonare il politichese, che era caratterizzato dalla retorica del compromesso, vale a dire dall’artificio del dire senza mostrare di dire, nonché dall’uso di termini che gran parte dell’Italia degli anni ’60 non comprendeva. La lingua nuova l’ha inventata Umberto Bossi, in totale contrapposizione con la tradizione. Dopo di lui – il vero innovatore – sono arrivati Beppe Grillo, Renzi e Salvini. Quali sono le caratteristiche del nuovo linguaggio politico? 1) L’uso frequente delle metafore, talvolta iperboliche. 2) La differenziazione ripetitiva tra “noi” e “loro”. Noi per movimento e Lega rappresenta i buoni, la società civile, e loro i cattivi, i corrotti, i poteri forti nazionali e sovranazionali, la casta. Per Renzi – che è stato prescelto dall’establishment e quindi diversamente dagli altri due non lo avversa ma lo sostiene e lo rappresenta – noi è giovani contro vecchi, laddove i giovani rappresentano la virtù e il cambiamento e i vecchi (non importa se hanno 40 anni) sono i nemici dell’Italia che riparte, i gufi, gli esclusi dall’abbraccio totalizzante della Storia che intraprende un altro corso (sbagliato, lo si è visto). 3) Le frasi o i simboli fortemente identitari del gruppo. 4) Un modo di esprimersi molto disinibito, rafforzato da un abbigliamento informale. 5) L’emotività. 6) Il ricorso ai social intesi non già come luoghi di confronto dialettico con tutti – avversari compresi – bensì come piazze allargate per il lancio di hashtag, che sono gli slogan dell’era digitale, ugualmente indiscutibili e ugualmente intrisi di vis polemica e autoritaria. Nell’uso dei social il migliore dei tre non è Grillo ma Renzi, il quale tra l’altro ha ingaggiato all’interno del partito una lotta per affrancarsi dalla dialettica tipica della sinistra, anzi: da quel che restava della sinistra. “Lì c’è la sinistra che quando vede un iPhone chiede dove mettere il gettone, o se ha una macchina fotografica digitale prova a infilare il rullino”, diceva.

Matteo Salvini nei panni di Ministro dell’Interno rimane soprattutto il leader e il segretario di un partito che parla un linguaggio rozzo apparentemente destinato solo al suo elettorato ma che in realtà è anche una sorta di rivalsa contro la narrazione mediatica. Si può osservare la tendenza del M5S all’ambivalenza: da una parte ricalca di tanto in tanto lo stile di Grillo e dall’altra si serve di un linguaggio che è sì comprensibile a tutti ma che rispetta in qualche maniera le regole più comuni del tipico discorso istituzionale. Danilo Toninelli ha assunto il ruolo del narratore e del traduttore delle parole di Salvini durante la crisi Aquarius. Mentre Salvini predilige la sintesi estrema e le parole dure dichiarando che la pacchia è finita e che le navi Ong non potranno più decidere dove far terminare le loro crociere, Il ministro Toninelli chiarisce a mezzo stampa che i porti italiani non sono stati chiusi, che semmai gli altri governi sono stati sollecitati ad aprire quei porti che prima erano chiusi (Spagna, Francia), che il consenso agli sbarchi dipenderà da chi ha effettuato i salvataggi e dove (dicendo senza dirlo che il governo non si fida delle Ong), e che queste decisioni sono un richiamo alla UE per la cooperazione e la condivisione delle responsabilità. Evidentemente lo stesso lavoro di traduzione deve averlo compiuto il PdC Conte a Parigi durante l’incontro con Macron.

La differenza tra Lega e movimento sta nelle parole. Dando per scontato il fatto che le parole in politica sono la punta di un iceberg fatto di opposizioni e tratti distintivi, e dando per scontato il fatto che le scelte retoriche non sono mai casuali ma rappresentano strategie precise, è possibile sin da ora affermare che Salvini stia costruendo proprio attraverso la vecchia lingua celodurista un nuovo paradigma della figura dell’autorità e che Di Maio stia perseguendo una via in apparenza più “democristiana” perché non si sa mai. Più semplicemente potrebbe trattarsi di una astuta divisione di ruoli all’interno della coalizione.

Il PD renziano e l’insieme dei media ipercritici si sono impegnati attraverso forme sempre più spregiudicate di linguaggio (eclatante l’ultima copertina dell’Espresso che cita Vittorini per dire che Salvini non è un umano, eclatante il caso di Albinati che ammette di aver sperato che su Aquarius morisse un bambino) a gettare discredito sul governo per mantenere nettamente separate le due fazioni opposte che si sono create nell’opinione pubblica. Manca una reciprocità che abbia un carattere umano piuttosto che disumano. L’irrazionalità dei modi della comunicazione, sul piano culturale è un’involuzione penosa: l’élite sembra non disporre più della potenza mitica che prima le permetteva di giustificare lo stato di fatto. L’universo lessicale del giornalismo e quello degli intellettuali parla soprattutto alla pancia e nello stesso tempo accusa il populismo di parlare alla pancia. Chiunque la adoperi, la lingua dello stereotipo e del luogo comune non è un buon servizio per i cittadini, è un fatto di potere, serve sostanzialmente a far sì che le masse restino divise dando credito all’uno o all’altro sistema di potere: è il modo migliore affinché essi non prendano coscienza del fatto che esiste un solo vero problema a monte di tutti gli altri problemi: la scarsità in relazione ai bisogni, il differimento della realizzazione dei più giovani, l’essere gli uomini delle merci in un sistema che squalifica il concetto stesso del diritto.

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