Le pecore gay

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Le pecore gay

Uno studio effettuato negli USA partendo dall’osservazione di un gruppo di 11 pecore stabilisce che l’omosessualità sia un’anomalia genetica, almeno nel 40%  dei casi.

Le pecore gay hanno permesso a tre studiosi  statunitensi di elaborare una nuova teoria sull’omosessualità. I tre, capitanati dallo psicologo Michael Bailey della Northwestern University, hanno studiato il comportamento delle pecore perché pare che si tratti di animali predisposti come gli umani ad accoppiarsi con esemplari dello stesso sesso, e studiando studiando sono giunti a stabilire la presenza di un germe. La teoria confuta parzialmente che l’omosessualità sia scritta nel cromosoma X, individua non più uno ma due geni distinti che determinerebbero l’orientamento sessuale. Bailey, che è noto per la sua lotta contro i tabù sessuali, nega che essere gay significhi essere malati ma d’altra parte dichiara che il 40% circa degli omosessuali sono vittime di un’anomalia genetica: hanno contratto una sorta di virus, perché il germe o gene gay si comporta esattamente come un virus “mettendo in moto una difesa autodistruttiva del corpo a un’infezione esterna”. Parole sue.

Se solo il 40% dei gay contrae il germe, il restante 60% come fa a diventare omosessuale? E’ presto detto: Bailey dice che è molto importante considerare i livelli ormonali delle madri durante la gravidanza e che dopo la nascita diventa fondamentale l’influenza ambientale, quindi contano molto il tipo di società in cui i bambini crescono e il tipo di cultura che essi assorbono. La scoperta si rivela lacunosa e incompleta, anche se è stata accolta con favore perché ha il merito di mettere a tacere tutti coloro che sono ancora oggi convinti che l’omosessualità sia una malattia oppure solo una scelta razionale. E se pure fosse una scelta razionale? Questo non si accetta, fa paura. Mi pare che la “tolleranza” – orribile abusata parola – sia sempre univoca, e che ogni ragionamento, scientifico o no sull’omosessualità, abbia come modello ispiratore l’eterosessuale, dunque si continua ad usare termini come “anomalia” e a temere le influenze di una società troppo permissiva perché in sostanza si considera l’omosessuale come una minaccia sociale e sotto sotto si crede che anche un solo rapporto omosessuale possa determinare negli uomini e nelle donne un cambiamento definitivo. Nell’antica Grecia l’omosessualità era pratica comune a tutti gli uomini, benché fossero sposati e avessero figli. A questo proposito Pasolini, in un discorso sul fenomeno dell’omosessualità occasionale praticata in carcere da eterosessuali, dimostrava che “dopo” si rimanesse esattamente come si era prima, perché non esiste alcun individuo che non sia anche omosessuale.

Non mi convince Bailey, con tutto il rispetto dovuto ai suoi eccellenti studi. Non mi piace la tendenza a cercare “giustificazioni” per il comportamento sessuale delle persone, sempre nel rispetto di uno schema morale definito oltre il quale diventa impossibile discutere. E non mi convince quel 60% che pur non incontrando i geni condizionanti diventa ugualmente gay a causa delle influenze esterne: perché allora chi non volesse figli gay potrebbe trasferirsi in Russia o in qualsiasi altro paese omofobo e risolverebbe la questione.

Il socio di Bailey, che si chiama Cochran, desiderando che la scoperta abbia anche risvolti pratici e tangibili, ha suggerito di intervenire geneticamente quando il feto è nella pancia della sua mamma. Il popolo LGBT ha reagito malissimo a queste affermazioni, ma Cochran ha rassicurato tutti, ha detto che non si tratterebbe di far cose un po’ naziste o reazionarie, niente affatto: semplicemente da ora in poi si potrebbe dare ai genitori la possibilità di decidere come gli piacerebbe il nascituro: lo vogliono gay oppure preferiscono agire prima della sua nascita correggendo l’anomalia genetica?

 

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