L’ombelico del mondo cambierà

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L’ombelico del mondo cambierà

Per Cuba si apre una prospettiva nuova, l’embargo diventerà un brutto ricordo. Preservare le differenze sarà difficile, anche se è presto per prevedere che anche l’isola caraibica possa ereditare, insieme al meglio di cui parla Obama, anche il peggio dell’occidente.

L’ombelico del mondo cambierà, entrerà in una stagione nuova. Per Cuba finirà un’epoca, si chiuderà per sempre un pezzo di storia, che è stata dolorosa e però anche preziosa: la diversità, pur avendo un prezzo non quantificabile, è sempre preziosa. Sarebbe opportuno andarci presto, entro i prossimi due o tre anni, a guardare L’Avana e la sua gente, a fotografare con la mente l’incanto e anche tutto quello che non c’è, che ancora manca, a incamerare sguardi di desiderio e parole di speranza, a capire da vicino che significato ha quella poesia che imparavamo da bambini a scuola, Il sabato del villaggio, perché presto a Cuba sarà domenica.

A noi spettatori dell’ evento fa piacere vedere America e Cuba riunite e pronte a guardare avanti, e ci fa piacere guardare le immagini sorridenti dei ragazzi e delle ragazze cubani proiettati verso il futuro, però un groppo alla gola si fa spazio malgrado tutto: è commozione, ed è timore che qualcosa di quella terra caraibica possa mutare piano piano e perdersi. Non basterà ai cubani mettere un vestito nuovo e gettarsi nell’avventura, dovranno saper rimanere come sono sempre stati. Dentro. Bisogna che si riguardino, che imparino a usare due orologi, uno per il domani e un altro fermo al tempo passato: mantenerlo vivo, il passato, per quando non ci sarà più niente che gli somigli perché la voglia matta di libertà e di novità che il mondo occidentale – miraggio – ha alimentato può diventare una febbre, una di quelle febbri alte che danno le allucinazioni.

Certo è vero che l’aria di chiuso fa marcire e intristire, ed è vero che non si può campare tutta la vita con il sogno di passare il confine, con la punizione dell’embargo, col romanticismo e le complicazioni da mercato nero, con le furberie e i batticuori da sotterranei clandestini, con la paura di parlare chiaro, col terrore – una volta fuggiti – di non poter riabbracciare i familiari. Alla libertà ci si è portati tutti, dalla nascita. E allora che arrivino pure fin lì tutti i dispositivi per le comunicazioni, che internet entri pure nelle case, e brindiamo con loro all’era dei telefonini e alle esportazioni dei sigari più famosi del mondo, e ben vengano i permessi di viaggio, le transazioni finanziarie, i bancomat, le carte di credito.Una laicissima preghiera al vento si deve pur recitarla, per scaramanzia e per prevenire:

Caro dio dell’eterogeneità e della molteplicità, a questo popolo dei sorrisi e della musica regala un cilindro perché essi possano metterci dentro pezzi interi di cultura, il gusto intatto per la cucina locale, per la lingua e per la storia, e fa’ che non bevano troppa coca cola e non mangino troppi cheeseburgers, fa’ che non ingrossino i loro fondoschiena passando il tempo davanti a un pc, fa’ che in tivù non gli mandino Sex and the city e Big Brother, fa’ che non sappiano muovere troppo bene i pollici sulla tastiera di un iphone e che non gli piaccia molto stare sempre connessi, fa’ che la loro musica ci invada più di prima e che loro non si lascino invadere dalla nostra, fa’ che vestano a modo loro, che pensino a modo loro, fa’ che non si persuadano che essere uguali a noi è il meglio che si possa desiderare e così sia.

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