Non è facile per un immigrato

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Non è facile per un immigrato. E’ sempre troppo lontano da casa. Non si può mettere tutta quella distanza tra sé e il bisogno di futuro senza ripercussioni. I più forti ce la fanno, si inseriscono bene, cambiano, gestiscono le nostalgie con le telefonate, le foto di gruppo, le rimpatriate. Ci sono anche i deboli, o i meno attrezzati, che si perdono nelle cose e che si confondono. In questi giorni due stranieri, una donna e un uomo, la prima marocchina e il secondo afghano, hanno colmato la loro misura e sono crollati. Lei, la donna, in Italia ci viveva da molti anni, era sposata, aveva tre figli e sembrava tranquilla. Un anno fa era stata in Marocco dai parenti e quando è tornata a Roma deve aver percepito lo strappo. Avrà tentato di ricucirlo, poi è scoppiata, ha cominciato a non appartenere più a nessun luogo, e neanche ai suoi figli, e neanche a se stessa.

Quelli che usano la parola “clandestini” come fosse un reato non possono capire che perfino chi ha cambiato vita e paese da vent’anni si sente nella pancia questa cosa: la clandestinità può durare tutta la vita per un immigrato, non importa se abbia acquisito la cittadinanza, rimane clandestino perché ha fatto il viaggio per necessità, mica per scelta, mica per desiderio. Quand’è così e si fa la rimpatriata a casa, in mezzo alla propria gente e agli odori dell’infanzia, succede che senza neanche volerlo invece di riprendere fiato ci si ritrovi a non volere più nulla, ci si ritrovi a provare un improvviso assurdo odio feroce contro quel marito che ti ci ha portata, all’estero. Quella giovane donna marocchina “senza velo, moderna, come noi”, come l’hanno descritta i vicini di casa, non ce l’ha fatta proprio quando sembrava che il passato fosse rimpicciolito e il Marocco sostituito. Tutto il grumo degli istinti che fanno perdere cuore e testa e sguardo l’ha divorata con un morso, e lei allora ha tirato fuori, in una notte sola, il veleno per il quale non c’era più antidoto. Ha colpito tutti i suoi cari, e dopo l’ha fatta finita.

Anche per il ragazzo afghano che lavorava da Eataly Roma è andata storta: venticinque anni, rifugiato politico, ai primi di novembre avrebbe dovuto lasciare il posto, si era dimesso lui stesso. Lavorava da Eataly dal 2013. Si sa che era molto bravo, uno dei migliori, l’ha detto Oscar Farinetti, lo avrebbe assunto a tempo indeterminato. Un mondo nuovissimo e ricco lo circondava. Fiumane di gente, rumore di stoviglie, annunci al microfono, musica tutto il giorno, turni molto pesanti. Ha raccontato di aver rinunciato a quel lavoro a causa dello chef, che lo trattava malissimo e lo sbeffeggiava. Mobbing? Divario culturale, probabilmente: un modo diverso di intendere il rispetto per gli altri: il ragazzo afghano non sa che in questo mondo qui uno chef di grido tratta malissimo tutti, s’inalbera per cliché, deve farlo, altrimenti non è una vera star. Si vede che il ragazzo, dopo essersi dimesso, s’è sentito un soggetto a rischio, un precario due volte più precario dei nostri precari, estraneo. Forse ha pensato che una volta lasciato quel bel posto non avrebbe più trovato niente di simile, niente che fosse così bello. A forza di rimuginare i suoi nervi hanno fatto un giro vorticoso, tutta la faccenda si è coagulata lì, addosso allo chef, e lo ha accoltellato, poi ha colpito una guardia giurata che tentava di fermarlo. Il suo stato di cattività non gli ha permesso di decifrare e di ridimensionare uno chef antipatico. Avrebbe potuto pazientare e riprovare, invece adesso riflette alla luce di un neon: questura, ospedale, sbarre, rimpatrio? Non seguiranno, le cronache, le sorti del ragazzo afghano. E’ matto, ha gridato terrorizzato lo chef Nitti. Matto no, stressato si:  è che da Kabul a Roma il passaggio è una rivoluzione.

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