La notte in pugno

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La notte in pugno ce l’hanno i gestori e proprietari dei locali, delle migliaia di bar e baretti che spuntano come funghi dalla sera alla mattina nei vicoli e nelle strade di tutto il paese. Ce l’hanno in mano loro, tutto il ventaglio delle possibilità che si apre quasi ogni sera nelle fantasie dei nottambuli: dove giocarsela. E allora comincia il rimbalzare ritmico di nomi improbabili da un iphone all’altro, ci si vede allo Chandelier o al Mustafà, oppure al Manicomio, tanto fa lo stesso, sono tutti vicini azzeccati gli uni agli altri, i baretti. Basta superare ignorandoli i cumuli di immondizia, qualche cacca di cane, le vetrine sempre illuminate di una decina di negozi e ci si ritrova nel santuario dell’alcolico divertimento. Tutti in piedi al lavacro e all’aspersione, che per alcuni comincia alle sette di sera con l’aperitivo, con l’ happy hour, che un nome più da dopolavoro di quello lo potevano trovare soltanto gli anglosassoni, e noi subito a copiarli. E’ un modo spiccio e ingegnoso per cenare, l’happy hour. Ci si rimpinza di un bendiddio di stuzzichini, anche mummificati e resuscitati al microonde, tutto sommato si tiene a bada la fame fino al giorno dopo con una modica spesa. A meno che non si passi al fumo, ché quello apre lo stomaco che è una bellezza.

Tutto intorno i cento occhi dei palazzi – le finestre – spiano e aspettano che passi la mezzanotte perché qualcuno finalmente chiami la polizia: prima di una certa ora gli schiamazzi notturni non si chiamano così, si chiamano vita, allegria. Dopo no, cavolo, dopo i palazzi vorrebbero dormire e allora invocano le istituzioni e il diritto, i tentacoli della vigilanza. Hanno la loro parte di ragione, i palazzi. Però pure i nottambuli. A loro piace star fuori dai locali, mica dentro. Che poi il “dentro” il più delle volte sono tre metri quadrati di sudore attorno al bancone illuminato. Come ci si stipa? Si sciala fuori col bicchiere in una mano e l’iphone nell’altra, neanche una terza appendice per poter abbracciare una lei o un lui. Pure la musica esce con loro, si spalma ben oltre i confini del vicolo o della piazzetta.

D’estate chi abita in zona movida bestemmia, si ritrova nel giro di qualche notte in bianco a rigurgitare tutto il repertorio antico del repressore e del vecchio rancoroso anche se ha appena trent’anni. Perché c’è il piccolo che piange e non riesce a dormire, e c’è quello che studia e non si può concentrare, e c’è il febbricitante, e il nonno e i lavoratori che si svegliano prima delle sei. Qualche volta succede che un cristiano si senta male e non c’è verso di far passare l’autoambulanza che rimane ostaggio della folla per un tempo che può sembrare infinito: illumina di blu le facce attonite, le assorda con quel suono d’allarme che è meglio non pensarci. Quelli vorrebbero pure scansarsi, rinculano, si addossano, ma non c’è più spazio. C’è gente insomma che non ha scelto bene il tempo neppure per avere un infarto, che si deve accodare per forza ai ritmi dei nottambuli, e così s’incattivisce e non gli va più di pensare che stì benedetti ragazzi ce l’avranno pure il diritto di far qualcosa, di stare in mezzo agli altri, di dimenticare. Perché di cose da dimenticare, i ventenni di adesso, ne hanno in verità ben più degli ottantenni. Facessero solo un pò meno casino li lascerebbero in pace fino alla mattina, quando cominciano a sciamare verso casa con l’aria di chi ha mancato il bersaglio oppure contenti, con l’espressione incauta di chi ha vinto, lì, proprio sotto al portone dei repressori assonnati. Si disperdono per le vie laterali, cercano le macchine parcheggiate alla meglio, scansano bottiglie vuote e camminano su una marea di cicche e tovagliolini di carta bisunti. Hanno intravisto e smarrito, nella bolgia, qualcosa di buono.

Brano consigliato: La notte dei miracoli – Lucio Dalla

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