Selfie

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Selfie è la parola più nuova e più usata degli ultimi 2 anni. L’autoscatto non è un’invenzione recente, praticamente esiste da quando esistono le macchine fotografiche. La novità sta nell’uso che se ne fa: adesso è spesso eccessivo, serve quasi esclusivamente alla condivisione attraverso i social e i telefonini, serve a farsi vedere, a lanciare una moda, a divulgare notizie, e accade perfino che qualcuno se ne serva per attirare l’attenzione su argomenti seri, come la salute mentale. E’ il caso di Rebecca Brown, una ragazza inglese di 21 anni che dall’età di 14 anni ha cominciato a farsi un selfie al giorno, e non per divertimento ma per documentare l’andamento della sua malattia e per condividere quei selfie sul suo profilo facebook. Rebecca – Brownie0 sui social – soffre di tricotillomania, che è un disturbo nervoso dovuto all’ansia e in molti casi alla depressione. Brownie0 a tredici anni cominciò a strapparsi i capelli a ciocche, non riusciva a fermarsi, a smettere, e nessun medico per cinque lunghi anni è riuscito a capire come curarla.

Un selfie dopo l’altro: un giorno coi capelli lunghi e folti, un altro coi capelli corti, poi col cranio rasato, Brownie0 ha mostrato l’evoluzione della malattia e alla fine i progressi. Quando ha cominciato a fotografarsi non sapeva che un giorno, dopo 6 anni e mezzo di scatti, avrebbe creato un docufilm di 4 minuti per condensare in una sequenza parossistica tutto il suo percorso, per riunire oltre 2000 espressioni, oltre 2000 giornate difficili in un mini-film. E non sapeva che con quel piccolo documentario personale sarebbe diventata molto famosa. Cinque milioni di persone hanno visto quel filmino su youtube, l’hanno contattata, l’hanno ringraziata : molti ragazzi e ragazze affetti dallo stesso disturbo si sono sentiti meno soli, meno “diversi”, meno sconfortati. Rebecca è guarita, tutti possono guarire.

Lei racconta di aver voluto essere sincera, niente sorrisi falsi davanti all’obiettivo come fanno tanti, niente allegria simulata, lei  voleva dire “non sono felice, ho un problema, ma la mia bellezza è anche questo, è anche perdere i capelli”. Noi siamo belli anche se non siamo perfetti, è questo il messaggio. Anche un’altra ragazza inglese ha fatto come Rebecca: per due anni ha documentato la sua anoressia attraverso i selfie. Fino alla guarigione. Stabilire se il contatto quotidiano con gli altri, col mondo esterno che guarda, abbia contribuito in qualche maniera alla guarigione di queste due ragazze è azzardato quanto impossibile. Si potrà capirlo forse fra un decennio: non chiudersi in se stessi circondandosi di familiari e amici intimi ma piuttosto dire a tutti “ecco come sto” potrebbe aiutare i più giovani a sforzarsi di lottare per sé ma anche per non deludere, a cercare di vincere un disturbo mentale mentre il mondo li segue e aspetta con loro, giorno dopo giorno. Di questa malattia si parla molto poco, chi ne soffre di solito si nasconde, si vergogna, nega di avere un problema. Rebecca scoprì da sola di essere affetta da  tricotillomania: navigando su internet imparò quella parola.

Dopo 6 anni e mezzo di sofferenze e di alti e bassi Rebecca Brown è diventata un esempio di positività, un’eroina. Non so, si può anche dubitare e criticare il bisogno spasmodico di vivere ogni cosa sui social, come se lì la realtà diventasse più reale e più vera, ma intanto è così che vanno le cose, non c’è altro da fare che andare avanti e cercare di comprendere: qualunque strada in fin dei conti può andar bene se serve a non ingarbugliarsi, a non attorcigliarsi su se stessi. Non sappiamo niente, è tutto ancora troppo nuovo e procediamo storditi e a nervi scoperti. I nativi digitali, i diciottenni, forse sono loro il dazio da pagare all’irrequietezza che ormai ci fa detestare i confini dei condomini, delle scuole, dei quartieri, delle città e ci fa desiderare di allargare l’orizzonte, di parlare con tutti senza la necessità di conoscerli, di toccarli : un selfie è proprio una mania stupida ma può diventare, certe volte, addirittura un sostegno a una terapia comportamentale. Parola di Rebecca Brown.

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