Siamo trasparenti

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Siamo trasparenti

Non esiste nessuna tecnologia buona o cattiva in sé. Conta il modo in cui la usiamo.

Siamo trasparenti, come se fossimo fatti di vetro. Siamo una sequenza infinita di scatti fotografici. Condividiamo tutto con tutti, anche con gli sconosciuti, anzi soprattutto con gli sconosciuti. Fino al punto che il senso di una fotografia (fermare un momento importante della vita di qualcuno) è stato travolto dalla smania di ritrarre qualsiasi cosa per arricchire il profilo sul web, per autopromuoversi dovunque: seduti sul gabinetto, nella stanzetta del tattoo artist, a letto con la fidanzata, al ristorante, sul posto di lavoro, col cane, col gatto, con mamma e papà, nonna, zii, amici, appoggiati alle statue, davanti a un monumento, di fronte a un incidente. Sui social è un pullulare di foto di gruppo, tutte uguali tutti giorni e tutte le notti, un’infinità di teste piegate le une verso le altre, a toccarsi, per entrare in sei o in dieci nell’obiettivo, e c’è anche un’infinità di foto di piedi nudi.

Perché è importante raggiungere il pubblico in mille direzioni. Perché questo significa attestare il raggiungimento di condizioni in cui possiamo forgiare con le nostre mani la vita, sottrarre la nostra vita alla subordinazione, ad un apparato che sta al di fuori del nostro controllo. Perché stare uniti e sentirsi simili è bello. Perché è il nostro turno, adesso. Passiamo le giornate a immortalare scene inutili, gesti intimi, sesso, risate, dolore. La beneficenza, che è volgare esibire, si fa pubblica con tanto di spettacolino estivo di personaggi noti  che si fanno colpire da secchiate d’acqua gelata. Questo significa che hanno dato l’obolo ai malati senza più un welfare. Qualcuno, più incauto e volgare di altri, sventola pure la banconota da 100 euro.

Coi selfie e le foto si fa anche informazione vera, a volte si precede la stampa ufficiale, a volte un’immagine postata sul web finisce su tutti i giornali. Una ragazza ucraina, l’infermiera Olesya, scattò un selfie subito dopo essere stata colpita da un proiettile alla gola durante i primi disordini di piazza a Kiev: “Collapse“, scrisse, e quella foto fece il giro del mondo.Stava morendo? Voleva morire condividendo, più reporter di un reporter professionista, forte al punto che il bisogno di testimoniare cosa accadeva in quei momenti ha prevalso sulla paura e sul dolore fisico. Non è morta, per fortuna.

Tutto si mescola, tutto va a finire nel calderone del voyeurismo. Girano il mondo i selfie di coppie che s’accoppiano, si mischiano alle foto di vip alle feste, di bimbi palestinesi feriti fotografati dai parenti in lacrime, di famosi e ignoti  in costume da bagno, di eroi, di paesaggi sublimi visti nell’ultima vacanza, di madri che allattano, di gente che beve al pub, gente che mangia, zombie ad Halloween, Harry Potter o Catwoman a carnevale. Tutte le convenzioni e le regole sociali che a fatica o volentieri si devono rispettare possono andarsene a quel paese insieme alla timidezza, alle insicurezze, alla sensazione di stare in questo mondo senza appartenere a una moda, senza far parte di niente, di un evento cruciale, imprigionati in un anonimato che angoscia. E’ una trappola? Non esiste nessuna tecnologia buona o cattiva in sé. Conta il modo in cui la usiamo. Senza esagerare: se continuiamo coi selfie  da qui a dieci anni non ci sarà più una briciola di privatezza da custodire.

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Un commento su “Siamo trasparenti

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