Una società di omertosi

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Una società di omertosi

“In psicologia, per coscienza si intende il modo in cui le esperienze, le percezioni, i ricordi, i sentimenti e gli atti della volontà sono dati e conosciuti al soggetto. Il termine indica la percezione di sé, del proprio corpo, delle proprie idee, del significato e dei fini delle proprie azioni” [cit]

Una società di omertosi è una società decadente e senza principi. Gli esempi che dimostrano come siamo diventati sono innumerevoli. Inconcepibili segreti di Stato, insabbiamenti, continue giustificazioni, dichiarazioni d’inconsapevolezza e di estraneità di fronte ai fatti scabrosi caratterizzano i comportamenti dei rappresentanti delle istituzioni. Connivenze, indifferenza, egoismo e comodo laissez-faire sono atteggiamenti comuni agli individui in famiglia e sul lavoro. Senso di responsabilità e senso del dovere nella vita privata e in quella pubblica sono stati soppiantati dalla viltà che ci salva dalla partecipazione, che ci mette al riparo di fronte alle difficoltà. Ognuno pensa a sé. La parola d’ordine è evitamento: non mettersi in mezzo, non mettersi in gioco, tacere, non coltivare sensi di colpa, voltarsi da un’altra parte, mentire o simulare finchè è possibile, finché non siamo costretti – spalle al muro – a parlare quando è troppo tardi per salvare qualcosa, qualcuno, la faccia, la dignità, uno straccio di integrità morale. Non esistono più colpevoli né errori: esistono solo scuse arroganti per trarsi d’impaccio, si gira in tondo pur di non rimanere invischiati nella trappola di avercela, una coscienza.  

Un caso emblematico è quello che riguarda la morte di Domenico, studente padovano di 19 anni caduto dal quinto piano dell’hotel milanese in cui si trovava con la scuola per una gita all’Expo. Non si sa nulla dal 10 maggio. Si fanno supposizioni e ipotesi, ma nessuno apre bocca. La sola testimonianza riguardo a quella notte brava arriva dopo 10 giorni attraverso un messaggio su whatsapp, captato per un caso fortuito da un utente Facebook e subito recapitato alla trasmissione Chi l’ha visto. Forse si tratta di un macabro scherzo, o forse il messaggio – sintetico come un pizzino – è stato scritto da qualcuno che lavora in quell’hotel, qualcuno che ha visto e sentito tutto e che non ce l’ha fatta più a tenersi dentro la verità, ma che non è riuscito a farsi avanti con un nome e un cognome. Se non si tratta di uno scherzo non vi è comunque alcuna certezza che l’esposizione dei fatti corrisponda alla realtà. La sola certezza di cui disponiamo è che gli adulti e i ragazzi coinvolti nella triste vicenda si attengono ai codici tipici dell’omertà.

Perché? Quella non è stata certo una notte da delinquenti o da assassini, è stata una notte da gita scolastica, quando il gruppo si scatena bevendo troppo, inventando giochi stupidi e pericolosi, fumando, facendo sesso: succede spesso, e scandalizzarsi è inutile quando non si ha la forza e l’autorevolezza per prevenire. Il pernottamento fuori casa con la scuola rievoca il collegio ma conduce professori e alunni in un territorio neutro in cui la sanzione non esiste e lascia il posto all’arbitrio: la notte è priva di indicazioni, suggerisce di ritrovare negli alcolici l’orgoglio della trasgressione, scatena istinti e comportamenti insoliti, diventa un pretesto per perdere i freni inibitori e confondere il bordello con la libertà. Di solito non accade nulla di irreparabile, questa volta è morto un ragazzo. Si tratta di una terribile fatalità: nessuno covava propositi maligni, nessuno voleva ammazzare un amico, dunque se si tace non è perchè si ha paura. E’ fuorviante e salvifico immaginare che si tratti di paura. Ciò che questa storia rivela è proprio la fine del senso di responsabilità. Non ce l’hanno avuto gli accompagnatori adulti, che dal giorno della disgrazia fanno lezione in classe senza mai toccare l’argomento Domenico, ché il suo nome è un tabù. Non ce l’hanno avuto i ragazzi testimoni del dramma. Quel senso di responsabilità non ce l’abbiamo, è andato perduto, e noi adulti lo abbiamo perduto molto prima dei ragazzi, altrimenti glielo avremmo trasmesso, insegnato, regalato.

Senza l’onestà e la limpidezza che ci permettono di affrontare le difficoltà e di dichiararci fallaci di fronte agli altri noi non siamo che uomini e donne a metà. Senza quella lucetta rossa che s’accende come un allarme tra il petto e lo stomaco quando ci troviamo davanti a una situazione che richiede coraggio noi siamo allo sbando. Quei ragazzi di una notte brava finita malissimo li abbiamo fatti noi così, incapaci di ammettere l’errore o l’incidente, incapaci di chiedere scusa, incapaci di farsi avanti e raccontare apertamente, col cuore in mano. La loro non è paura: è assoluta mancanza di rispetto per se stessi ancor prima che per un compagno volato giù da una finestra. La loro omertà la devono a noi. A questa colpa non si rimedia in due minuti. Ci vuole un impegno che coinvolga tutti gli adulti nelle case, nelle scuole, nelle istituzioni. Occorrono molti anni. Occorre la seria e decisa volontà di dare l’esempio giorno per giorno e di far capire ai bambini e agli adolescenti cosa significa camminare a testa alta.

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