Violenza genera violenza

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Violenza genera violenza

Il problema della violenza esercitata dalle forze dell’ordine statunitensi non riguarda soltanto i neri ma tutta la società americana

Violenza genera violenza. Almeno dieci città americane sono in queste ore teatro di disordini e manifestazioni a seguito della sentenza del Gran giurì che non ha incriminato l’agente di polizia Wilson, colui che freddò immotivatamente un ragazzo nero di 18 anni a Ferguson. Obama ha dichiarato che questa situazione di sfiducia e di ribellione verso la polizia da parte delle comunità afro-americane deriva da anni di discriminazioni razziali. Invita i cittadini a manifestare pacificamente ma molti di essi stanno reagendo con durezza all’ingiustizia. Il punto di vista del Presidente sulla questione è parziale: considerare soltanto il rapporto difficile tra afro-americani e polizia trascurando tutto il resto circoscrive un problema serio che è generale e che riguarda tutti i cittadini americani, non solo quelli di colore. Misurarsi con questo problema significa anche decidere di mettere in discussione i metodi coercitivi nel loro insieme, soprattutto se ci si presenta al mondo come paladini del riformismo e del progressismo così come Obama ha fatto. Le forze dell’ordine statunitensi sono violentissime, da sempre e senza rimedio. I casi di brutali aggressioni non giustificabili a singoli individui, donne, anziani, uomini e minori, bianchi gialli o neri si ripetono quotidianamente e sono sconcertanti. Un ragazzino bianco di appena dodici anni proprio nei giorni scorsi a Cleveland è stato ucciso per strada da un agente convinto che il minore stesse giocando con una pistola vera: si è spaventato e lo ha eliminato dalla faccia della terra. Se l’agente riteneva di non poter fare a meno di sparare avrebbe almeno potuto puntare a un piede, a una gamba. Sostanze chimiche urticanti, come gli spray al peperoncino, vengono utilizzati sovente e senza motivo perfino contro i sit-in studenteschi e l’uso della forza fisica e dei manganelli anche nei riguardi di persone inermi e non reattive è una prassi consolidata.

Il fenomeno che l’America ci mostra è quello di una società costruita per calcolo su una cultura di morte e non di vita. L’irruzione della violenza in tutte le sue forme – quella di Stato come quella comune -, l’uso smodato delle armi, l’aggressività accettata come un fatto naturale e quindi in qualche modo scusabile sono prodotti di un progetto culturale che si è scelto scientemente per poter semplificare: la violenza è facile, chiara come sempre è chiara ogni sopraffazione, mentre l’educazione a progettare la vita richiede un lavoro immane, difficile, che il pragmatismo rifiuta come si rifiuta una debolezza. Educare alla vita significa valutare e capire prima di agire, sublimare le maniere forti e farle scendere a patti con la tolleranza, la dialettica. Il gioco al massacro tra colui che esercita un sopruso e colui che chiede vendetta è un gioco mortifero, un intrico di buone ragioni e cattive ragioni che crea un perenne stato di emergenza in tempo di pace. In tempo di pace gli occidentali per strada si fanno la guerra:  tutti sono attraversati da una corrente elettrica che li spinge a premere un grilletto, a usare le mani, a superare il confine sottile tra razionalità e istinto. In tempo di pace ci hanno insegnato che la forza è vincente, che essa tiene in equilibrio la bilancia. La paranoia della difesa ha perduto la sua connotazione negativa, non è più una malattia perché dovunque è assurta a regola.

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