La fabbrica dell’eternità esiste

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La fabbrica dell’eternità esiste e risiede in un distretto di Los Angeles, Hollywood. I divi di Hollywood incarnano da sempre una visione ideale da offrire al mondo, non solo di se stessi ma della vita. Tutto come vorremmo che fosse, tutto costruito con i click fotografici per rappresentare una versione favolosa dell’esistenza. In passato il ruolo e il modello imposti dall’industria del cinema erano vere e proprie camicie di forza per gli attori, oggi realtà e finzione sono separate con minore rigidità perché i valori sono cambiati. Un’attrice come Jodie Foster – per esempio – può dichiarare apertamente le proprie preferenze sessuali senza problemi, per fortuna  Il povero Rock Hudson ai suoi tempi ha dovuto interpretare la parte del maschio forte e virile per tutta la vita per obbedire al diktat delle case cinematografiche: per essere credibile nei panni di un affascinante marito/amante sullo schermo non poteva rivelare chi fosse, pena l’interruzione di una carriera. Probabilmente adesso funziona ancora così solo per qualcuno, solo per quei divi troppo desiderabili e troppo rappresentativi della mascolinità/femminilità occidentale che se fossero sinceri rischierebbero di deludere milioni di adoratori e di perdere milioni di dollari.

Malgrado la maggiore apertura nei confronti dell’orientamento sessuale lo show-biz impone sempre le sue regole ferree: l’immagine pubblica deve trasmettere ottimismo esattamente come in passato. Davanti all’obiettivo i famosissimi sorridono tutti per contratto, nascondono drammi e problemi per evitare gli insuccessi e il disincanto del pubblico. Certe immagini mostrano molto più di un volto: dietro, senza neppure sforzarsi, si percepisce l’ordine di una villa confortevole e ricca, l’armonia di giornate prive di difetti e di intralci, la grandezza di amori assoluti e romantici, la leggerezza del divertimento perenne. Tutto questo non serve a favorire processi di identificazione nelle masse, serve anzi all’idealizzazione, al sogno, a creare nell’immaginario collettivo un non luogo nel quale la star diviene inaccessibile e astratta come un dio pagano. Tutto l’apparato hollywoodiano si regge su questa deizzazione.

Non molto tempo fa Angelina Jolie si è infuriata a causa della pubblicazione di un video in cui – giovanissima e non ancora così famosa – parlava al telefono camminando avanti e indietro in una camera, visibilmente alterata da un eccesso di alcol o da vattelapesca cos’altro. Con marito, figli ed eventuali animali domestici – tutti fotogenici e stupendi – lei deve incarnare l’esemplarità della famiglia contemporanea, della fortuna, dell’amore e dell’equilibrio. Tutto il resto deve sparire. La sua scelta di raccontare come abbia voluto attaccare il cancro al seno ben prima che lui attaccasse lei fa molto Hollywood e pochissimo “sono un essere umano comune”. Intorno a quella rivelazione è stato costruito un ideale ancora più irraggiungibile: la Jolie non è coraggiosa come tante, è di più, è colei che sfida la natura e la morte, e la mastectomia non è ferite, disagi  e degenze in ospedale, è un evento asettico dal quale riemerge una bellezza ancora più fulgida.

Quando guardiamo le vecchie e bellissime immagini in bianco e nero di Audrey Hepburn, di Marlon Brando, Cary Grant, Grace Kelly, Marilyn Monroe, James Dean, siamo ancora convinti che allora tutto fosse idilliaco, che la perfetta felicità fosse possibile. Sappiamo ormai che molti di loro arrancavano nella disperazione, gestivano rapporti personali disastrosi e dipendenze rovinose da farmaci e droghe, sappiamo che come tutti i comuni mortali combattevano una qualche malattia, eppure ce ne dimentichiamo, prendiamo per buona soltanto la Hollywood come non era, perché l’artificio rievocato dalle immagini glamour piace come allora. La Hepburn, per esempio, immortalata nella versione giorno con ai piedi le sue ballerine e in quella serale col bocchino chilometrico tra le dita è il simbolo dell’l’eleganza naturale e decontractée e rimarrà per sempre il modello insuperabile di una femminilità perduta, della grazia. Nulla conta la sua vita reale, normalizzazione e banalizzazione sono incompatibili con l’eternità.

 

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